"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

lunedì 24 gennaio 2011

Riformare Confindustria? Certo! Ma prima ...

La Presidente di Confindustria ha dato ufficialità all’esigenza, oramai diffusamente sentita, di riformare questa Associazione.
Io credo che, prima di progettare qualunque proposta di riforma sia il caso di farsi una domanda alla quale non ho ancora trovato risposta organica. Solo pezzi di risposta che mi sembrano davvero molto conservatori.
La domanda è: ma dove sta andando il sistema imprenditoriale italiano?
E’ una domanda fondamentale ed inevitabile perché è rispondendo ad essa che si capiscono le esigenze dei Soci di Confindustria, cioè le imprese.
Provo a dare una risposta da sottoporre al dibattito.
La noia, come preconizzava Moravia;  è forse il sentimento più tipico della fase avanzata della società industriale … Specularmente, la perdita della capacità di suscitare stupore è il problema del nostro sistema imprenditoriale perché genera la noia dei … clienti. Ecco, forse la parola “clienti” è ancora troppo generica, ma è sempre meglio della parola “consumatore” che è più adatta a chi compra e, quindi, poi, realmente consuma, pane e mortadella. Ma non a chi acquista, che ne so, televisori che sono indigesti al “consumo”.
Ma perché questa parentesi? Perché “nomina sunt consequaentia rerum”. Il fatto che continuiamo ad utilizzare la parola consumatore significa che siamo ancora legati ad una visione del sistema imprenditoriale finalizzato a soddisfare bisogni igienici. Mentre le ragioni profonde delle scelte di acquisto stanno in un “altrove” che non è ancora ben chiaro …

Prodotti che interessano sempre meno
L’emergere nelle persone di esigenze di autorealizzazione sempre più sofisticate genera una deriva di significato dei beni prodotti dalla società industriale: da un’intensa esistenzialità ad una normale funzionalità. Questa deriva di significato si porta dietro, ovviamente, una deriva di valore: parallelamente al perdere di significato i prodotti perdono di valore.
Queste derive di significato e, quindi, di valore sono in atto da tempo. Esse sono state, fino ad oggi, mascherate dal continuo arricchimento dei beni, soprattutto di consumo,
attraverso l’innovazione tecnologica, stilistica, comunicazionale e prestazionale. Questo arricchimento è riuscito a fare diventare molti di questi prodotti simboli di stili di vita desiderabili, tanto che acquisirli ed esibirli è diventato strumento di posizionamento e riscatto sociale. Il mascheramento ha funzionato così bene da creare una bolla artificiale di consumi.
Lo scoppio della bolla finanziaria ha generato, per effetto risonanza, anche lo scoppio di questa bolla di consumi della cui esistenza nessuno si era accorto.  Ed è stato uno scoppio “completo e irreversibile”. Le persone hanno iniziato seriamente a demitizzare prodotti fino a farli tornare al loro significato funzionale. Ma non si sono fermate a questo: ne hanno ridimensionato anche il ruolo funzionale perché molte prestazioni funzionali che sembravano indispensabili si sono rivelate esserlo sempre meno.
Mille fenomeni stanno a testimoniare della progressiva perdita di significato e di valore del “sistema di prodotti” della società industriale.

Il primo di questi fenomeni è il crescente ruolo e successo dei saldi. Esso sta chiaramente ed indicare che sempre più persone pensano che molti prodotti, soprattutto di vestiario, siano sopravvalutati. E li comprano solo, quando, attraverso i saldi ridimensionano hanno il loro prezzo.

Altro fenomeno rivelatore è l’esplosione degli outlet che stanno isolando l’acquisto in luoghi artificiali, completamente sganciati dalla socialità comunitaria che caratterizzava i negozi di prossimità. Quasi ad indicare che l’acquisto sta diventando quasi un mestiere, inevitabile, ma non così carico di significati relazionali.

Ma il fenomeno più rivelatore colpisce quello che forse è il settore trainante di tutto l’attuale sistema industriale: il settore dell’auto. Oramai sta diventando sempre più evidente che questo settore riesce a  sopravvivere solo se si nutre di incentivi statali: il fare auto, questo tipo di auto, prodotte in questo modo, è oramai strutturalmente non più economico. Questa evidenza viene “oscurata”, in qualche modo nascosta, pigiando sull’efficienza e l’innovazione tecnologica. Ma questo pigiare è sempre più difficile e costoso. Sia per la collettività (lo Stato) che deve colmare il gap  tra i costi necessari a produrre auto sempre migliori e i prezzi che le persone sono disposte a pagare per comprarle. Sia per chi lavora in questo settore perché le Case Automobilistiche, loro malgrado, sono costrette a chiedere sempre più impegno senza essere in grado di compensare adeguatamente questa escalation di impegno.
E’ anche in qualche modo perverso perché servirà solo a far crescere il costo sociale e personale del fare auto fino ad un punto di rottura prossimo futuro inevitabile del quale si intravvedono già i segnali.

A causa di questo perdere di valore dei prodotti, l’atto stesso, il momento stesso dell’acquisto sta addirittura diventando momento di stress, di fatica perché la perdita di valore dei prodotti ha un effetto drammatico sui conti economici delle imprese che sono sempre meno in grado di pagare stipendi che permettano di tornare ad un livello interessante di acquisto.

Come ulteriore e, per questo scritto conclusiva, dimostrazione che i tipi di prodotti che l’attuale sistema produttivo rende disponibili stanno perdendo di valore è che, per alcuni, diventa importante non quello che si compra, ma il come lo si compra.
Intendo dire che saldi funzionano anche perché stanno diventando momento di gioco e, quindi, di autorealizzazione. Stanno emergendo i professionisti dei saldi che pianificano attentamente la corsa ai saldi usando tecnologie e strategie. Ad esempio: diversi partner di un gruppo partecipano a diverse code, stanno in contatto via cellulare, così da poter cogliere lo spettro più ampio di opportunità.

Un calo strutturale, continuo e non congiunturale della domanda
La continua perdita di significato e, quindi, di valore, dei beni prodotti dal sistema industriale attuale ha una conseguenza via sempre più evidente e più drammatica: il calo della domanda, che si sta manifestando sempre più evidente, è strutturale e non contingente. Io credo che questo processo non sia ancora stato pienamente riconosciuto. Anzi, si ragiona al contrario: è la crisi finanziaria che ha spento la voglia di acquisto.
Dobbiamo il più in fretta possibile riconoscere che il calo di interesse per i prodotti tipici della società industriale era già in atto prima della crisi finanziaria. Essa ha certamente accelerato questo processo, ma l’uscita dalla crisi non significherà, in nessun modo, una ripresa generalizzata degli acquisti.

La conseguenza inevitabile: una capacità produttiva  sovrabbondante
Se cala in modo strutturale e continuo la domanda, allora diminuisce il fabbisogno di capacità produttiva. Questo significa che l’attuale capacità produttiva tenderà ad essere sempre più sovrabbondante.

La conseguenza della conseguenza: la ipercompetizione
Se gli spazi di mercato si vanno fatalmente riducendo mentre la capacità produttiva se non aumenta, certo non diminuisce, allora non può che scatenarsi una competizione sempre più dura, definita “ipercompetizione”, che finisce con l’essere, sempre di più, una devastante competizione di prezzo.

Il risultato finale: l’impresa schiacciata
Il risultato finale è che l’impresa viene schiacciata da un mercato che si restringe e da un prezzo che cala continuamente. Questo essere schiacciata le fa perde quella capacità di produrre valore ed occupazione che sta al fondamento della società industriale.

Forse nuovi mercati, certamente nuovi concorrenti
Negli anni scorsi una valvola di sfogo è sembrata essere la possibilità di trasferire la produzione in paesi che offrivano risorse produttive a basso prezzo e che  promettevano, anche, di essere nuovi e quasi immensi mercati: la filosofia della delocalizzazione “competitiva”. Ma si è presto scoperto di essere caduti in una trappola. I primi globalizzatori competitivi ne hanno avuto, certamente, un iniziale vantaggio perché sono riusciti a presentarsi sui loro mercati di riferimento con prezzi inferiori ai concorrenti. Ma, poi, questi ultimi sono corsi velocemente ai ripari adottando anche loro la strategia della delocalizzazione competitiva. Il risultato finale è stato indigesto, nel senso letterale del termine, quasi a tutte le imprese. Il vantaggio iniziale si è velocemente come “vaporizzato”. Pochissime imprese sono riuscite ad avere reali ritorni sugli investimenti fatti per delocalizzare. Tutte si sono ritrovate ad essere quasi esiliate in terre, dopo tutto, straniere, senza più poter usufruire delle risorse generative che i loro territori di origine avevano loro garantito. In più, i paesi dove si è delocalizzato sono diventati, invece che nuovi ed immensi mercati assorbitori, incubatori di una nuova e temibile concorrenza che sta rischiando di sbaragliare soprattutto quelle imprese che, giocando tutto sulla delocalizzazione competitiva, hanno scelto come arma competitiva proprio quella dove questi nostri nuovi concorrenti sono imbattibili: il prezzo.
Si coltiva ancora la speranza che la profonda interconnessione di mercati e società, prima o poi, equilibri i costi dei fattori produttivi e questi nostri nuovi ed inattesi concorrenti diventino simili a noi. Ma, se anche tutto questo accadesse domani mattina, non avremmo risolto il problema: un comune male competitivo non fa nessun gaudio. Anzi peggiora la vita di tutti perché una battaglia di prezzo è come un invincibile vortice che trascina tutti sempre più in basso.
E il quadro non è ancora completo. Manca ancora quello che, forse, è il fattore più importante. Le persone che nascono in altre civiltà, oggi si stanno facendo abbagliare dalla civiltà industriale. Ma presto questa “luce” si spegnerà ed inizieranno, almeno, a costruirne una loro declinazione specifica della società industriale. Questo significa che si presenteranno sui mercati con prodotti radicalmente nuovi per concezione, ispirazione. Interpreteranno diversamente la tecnologia e genereranno una diversa innovazione tecnologica e di prodotto. Al “made in Italy” si affiancheranno tanti altri “made”che avranno un equivalente fascino complessivo perché nasceranno da altri territori ugualmente ricchi di risorse generative.

Nuove imprenditorialità “aliene”
Io credo che accadrà anche qualcosa di molto più profondo. Nelle altre parti del mondo, a partire dalle provocazioni ricevute dalla scienza, dalla tecnologia e dai sistemi produttivi e, più in generale, dalle società occidentali, gli altri popoli, fondandosi sulle loro culture originarie, inizieranno a immaginare nuove concezioni della scienza e della tecnologia che porteranno a proposte ancora più radicalmente nuove di prodotti, sistemi produttivi e imprese, stili di vita e modelli sociali.
Questo immaginare diversità profonde troverà risonanze nelle nostre società e accelererà ancora di più la perdita di senso dei prodotti che oggi cerchiamo di produrre e vendere. E di tutto il sistema industriale che li fabbrica.

La persona schiacciata
Un’impresa schiacciata dalla competizione è costretta a schiacciare le persone.
Infatti, è costretta a stressare le persone che rimangono all’interno dell’impresa, a buttarne fuori il più possibile e a non assumere, se non a condizioni sempre peggiori, nuove persone.

Le persone che rimangono all’interno delle imprese sono costrette a vivere una situazione schizofrenica. Da un lato, sono spinte a diventare sempre più ingranaggi perché l’impresa ha bisogno di efficienza produttiva. Dall’altro lato, sono invitate a creatività, partecipazione e imprenditorialità personale che sono l’esatto contrario dell’essere ingranaggi. Si cerca di conciliare queste due spinte opposte attraverso un management che parla di leadership e di motivazione e dichiara di considerare le risorse umane come uno degli asset fondamentali dell’impresa. Ma diventa subito evidente che leadership e motivazione sono davvero solo banali strumenti di manipolazione. E che le risorse umane non sono considerate asset fondamentali perché si cerca di buttarne fuori il più possibile. Manipolazione e retorica delle risorse umane diventano sempre meno accettabili proprio a causa del crescere del desiderio di autorealizzazione delle persone. Il risultato è che la situazione schizofrenica in cui vengono a trovarsi le persone degenera in una situazione di crescente conflitto, permanente ed effettivo. Complessivamente: diminuiscono sia l’occupazione che la qualità dell’occupazione.

Ma la situazione è ancora più grave. Se si è costretti a “buttar fuori” le persone sotto la spinta della pressione competitiva, allora si è anche costretti ad iniziare dalle persone a costo maggiore. Cioè le persone più avanti con gli anni. E questo non significa solo privarsi di esperienze e conoscenze, ma soprattutto, cosa che nessuno nota, significa privarsi delle capacità cognitive proprie delle persone mature che le moderne scienze cognitive stanno scoprendo essere diverse, ma complementari con quelle delle altre età. Detto diversamente, buttar fuori le persone più mature crea un “buco” nelle competenze cognitive di un’impresa che si manifesta, ad esempio, in una diminuzione delle sue capacità progettuali. La rinuncia alle persone più mature diventa, poi, socialmente sempre più grave oggi, quando la struttura demografica della popolazione sta cambiando radicalmente.

Si è, anche, costretti ad aprire le porte delle imprese alle giovani generazioni con “patti” di qualità sempre inferiore (sia come retribuzione che come garanzie). E questo, ovviamente, impedisce una loro naturale e serena crescita professionale ed umana.
Tutto questo comporta un paradosso sistemico dirompente. Se le persone vengono espulse dall’impresa industriale perché essa possa sopravvivere (non più per far guadagnare gli azionisti, giusto solo per sopravvivere), se le persone che sopravvivono al suo interno pagano questo sopravvivere con un peggioramento della qualità della vita lavorativa, se le nuove generazioni riescono ad accedere con crescente difficoltà alle imprese, tutto questo significa che stanno scomparendo tutti gli spazi di autorealizzazione tipici della società industriale. Sia quelli sul lavoro, perché le persone vengono espulse dal lavoro o vivono male il tempo di lavoro. Sia quegli spazi di autorealizzazione costituiti da acquisto e tempo libero, perché le persone non hanno risorse né per l’uno né per l’altro.

Ma il paradosso non si ferma qui, continua.

Il paradosso dell’impresa che deve essere “mantenuta”
Una competizione di prezzo, come ho detto, sta schiacciando contemporaneamente persone e imprese. Imprese e persone che si incamminano, insieme ed appassionatamente, verso la perdita di senso.
Ma la competizione non si ferma mai e finisce per essere una guerra totale di tutti contro tutti. In una guerra totale, inevitabilmente, si iniziano ad usare armi improprie. Vengono coinvolti anche gli Stati che diventano i supporti di ultima istanza: il Sistema Paese diventa la risorsa competitiva fondamentale.
Ma se accettiamo che la situazione degeneri fino a questo punto, dobbiamo riconoscere che siamo arrivati, invece che alla soluzione finale, al paradosso finale. In una società industriale (sia nella sua versione capitalista che collettivista) è l’impresa industriale che produce le risorse per tutti. Le risorse con le quali si soddisfano i bisogni delle persone, con le quali si crea uno stato sociale moderno etc. Ma se l’impresa, per sopravvivere, deve chiedere aiuto allo Stato, allora la sua perdita di funzione, di significato è completata.

La crisi finanziaria come conseguenza
Ma … e la crisi finanziaria? La finanza dovrebbe essere il nutrimento dell’economia. E crescere quanto più cresce l’economia. Ma in questi anni se ne è andata per la sua strada. Meglio: si è chiusa su stessa. Finanza su finanza: così è nato il botto che certamente non è ancora esploso completamente. Le ragioni? Rimettiamo ancora una volta in fila tutte quelle che vengono addotte: è più facile fare finanza su finanza; l’avidità dei finanzieri, anzi la loro totale mancanza di etica; regole poco stringenti, poco applicate, poco fatte applicare … forse è tutto vero. Ma dietro questo c’è anche qualche cosa di ancora più vero. Lo racconto con una domanda: se i banchieri fossero stati devoti servitori sociali, disposti a rischiare tutto sull’economia “reale”, ma su quale economia avrebbero potuto investire se le imprese sono attori che producono debiti anziché surplus di valore? Va bene rischiare, ma buttare i soldi in un pozzo senza fondo è peggio che giocare a qualche roulette finanziaria.
Da domani? Ogni giorno sta diventano evidente che il valore prodotto dal sistema delle imprese è destinato a diminuire. Questo significa che anche la finanza dovrebbe ridimensionarsi. Naturalmente non può accadere, anzi la finanza sta costruendo un suo sviluppo autonomo e sganciato dall’economia.
Allora, da domani, attendiamoci una finanza che produrrà un’ecologia sempre più fiorente di bolle sempre più esplosive.

La natura limitata e limitante
Ma forse sto esagerando. Forse i nuovi mercati sono così ampi che, dopo qualche scompenso iniziale, dovuto al fatto che lo spazio del consumo cresca meno di quanto non crescano i concorrenti, alla fine ci sarà spazio di sopravvivenza per tutte le imprese. L’attuale competizione sarà vista come la “somma” di tante banali “baruffe chiozzotte” e la crescita delle imprese potrà continuare “più bella e più potente che pria”.
Invece no! Non sto esagerando. Perché la natura artificiale costituita dalla società industriale è troppo invasiva ed eterogenea rispetto all’ambiente naturale. Considera l’ambiente naturale come serbatoio e deposito di rifiuti. E cresce come se questo serbatoio e deposito siano  infiniti.
Credo che oramai sia evidente a tutti che la natura  non è più in grado di sostenere neanche l’attuale livello di espansione della società industriale. Figuriamoci una sua ulteriore crescita.
Al di là di tutto quello che ho già detto, è necessario riconoscere che sono anche, forse soprattutto, i limiti naturali a far sì che la società industriale possa essere solo una società di nicchia e non possa, in alcun modo, diventare una società planetaria.
L’affacciarsi di tutti i popoli della terra alla società industriale, il desiderio di buttarcisi dentro  semplicemente esaurirà più rapidamente la spinta feconda della società industriale e aggraverà la sua attuale involuzione viziosa.

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