"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

lunedì 22 ottobre 2012

Microsoft e il mestiere dell'impresa

di
Luciano Martinoli

Leggendo giornali e blog, ascoltando notiziari radiofonici e televisivi, dichiarazioni di alcuni imprenditori e manager, soprattutto delle grandi aziende, sembra che il mestiere delle imprese sia chiaro e ineludibile, quasi un destino al quale non si può sfuggire: occorre ripetere all'infinito,  solo in modo sempre più efficace ed efficiente, le cose che si stanno facendo da sempre. Un destino che sembra accomunare tutti, dall'oscuro terzista tessile del pratese alla Microsoft. E' però un destino che porta lentamente alla morte come proprio la Microsoft, fino a ieri innovatrice per eccellenza, inizia a mostrare dai suoi ultimi risultati: sembra giunta anch'essa al capolinea del fare le sempre stesse cose sempre meglio.

Perché la sola ricerca dell'efficacia e dell'efficienza porta le aziende alla morte?


Efficacia significa fare le cose giuste, efficienza fare le cose bene. Immaginiamo che le due cose da fare, bene e giuste, coincidano, ipotesi non sempre (per niente?) vera nella realtà. La cosa, prodotto o servizio, fatta sempre meglio al sempre minor costo, col tempo perde fisiologicamente di significato, come proprio il caso Microsoft dimostra. Che senso ha continuare a migliorare il sistema operativo per PC, giusto per fare un esempio, se l'accesso alle risorse di calcolo si sta spostando sulla rete e con apparati diversi dal PC? Ironia della sorte, proprio nel caso Microsoft, tali risultati negativi arrivano proprio alla vigilia di quel prodotto "nuovo" che arriva ben in ritardo rispetto agli altri, dunque compete con gli altri, perché nel frattempo si è perso tempo a fare bene e meglio ciò che interessava sempre meno al mercato!
Una storia davvero emblematica.

Allora fare questo mestiere è evidente che porta alla morte di una azienda e, se sostenuto dalla maggior parte delle aziende, di un intero sistema economico. Chi, dunque, nell'azione di governo (di una impresa, di una associazione di categoria, di un Paese) si occupa solo di questo, non esercita altro che una sorta di eutanasia di sistema.
Gli ostacoli, che tutti si affannano a denunciare e voler rimuovere, allora non sono altro che il segno di una perdita di senso, una chiusura referenziale, una morte annunciata di tutto un modo di fare impresa. Ne sono la tangibile e “concreta” testimonianza i licenziamenti, le chiusure, l’aumento degli incagli e dei crediti dubbi nel sistema bancario, le ristrutturazioni del debito ripetute a sempre più breve e distanza. Tutte queste cose non sono accidenti venuti dall'esterno dunque cause del malessere economico che stiamo vivendo, ma effetti e conseguenze di cause interne al sistema stesso.

Quale è allora il mestiere dell’impresa?
Rinnovarsi.
Rinnovarsi nel nuovo senso da dare ai suoi prodotti e servizi, non banali miglioramenti interstiziali e accessori.
Rinnovarsi nel modo di produrli e distribuirli, non limitandosi a marginali recuperi di efficienza.
Rinnovarsi nel modo in cui gestisce la propria organizzazione aziendale, non con ingenui intenti manipolatori che nascondono il solito modo di gestire.

Ma soprattutto rinnovarsi nel modo in cui ci si rinnova; non più basandosi sul solitario intuito di uno o pochi ma mobilitando le risorse cognitive e progettuali di tutta la comunità, interna ed esterna ai confini aziendali, del cui supporto si nutre l’azienda che vuole sopravvivere e avere successo. 
L’azienda del III millennio deve imparare a gestire il ciclo di significato del suo mestiere e, al momento opportuno, cambiarlo. L’impresa attuale deve dotarsi di una nuova conoscenza per progettare il suo futuro, cambiando sempre più spesso mestiere.
E’ questo il suo “nuovo” mestiere.

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