"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

lunedì 28 gennaio 2013

Classifiche dei CEO: solo capacità personali?

di
Luciano Martinoli

Harvard Business Review di Gennaio-Febbraio ha pubblicato la classifica dei 100 migliori CEO al mondo. Il prof. Finkelstein,della Tuck School of Business del Dartmouth College e autore del libro "Why smart executives fail", ha stilato invece quella dei peggiori 5. La lettura delle due, e degli articoli a commento, fa sorgere un dubbio davvero inquietante: il nostro destino è esclusivamente in mano ai “cavalieri bianchi”, o a quelli “neri”, che solo il caso può selezionare?
Oppure i “bravi” hanno solo avuto intuizione, e hanno messo in pratica, alcune “conoscenze” che, se rese disponibili a tutti, consentirebbero un salto di qualità generale nelle aziende? Quel salto di qualità, aziende che producono “cassa” in enorme abbondanza, che è l’unica ricetta radicale che può risolvere le cause profonde dello stato di crisi in cui versiamo?
Provo a spiegarmi con una metafora.

Immaginate che gli edifici nei quali abitiamo e lavoriamo siano frutto dell’intuito di un ridotto numero di “tecnici”. Loro sì che sanno come fare una costruzione che dura nel tempo, purtroppo solo con il loro personale sforzo di mantenerla in piedi, ma non hanno nessuna capacità di comprendere questo know-how per farlo diventare un sapere “sociale” disponibile a chiunque: è una essenziale parte di loro stessi. Non è cattiva volontà, o indispensabile cautela per salvaguardare il loro "vantaggio competitivo" (tanto è vero che a domande precise offrono risposte precise; vedere intervista a Bezos di Amazon), semplicemente sono impegnati a mettere in pratica queste conoscenze che hanno intuito.
Risultato: ci sono molti magnifici palazzi che durano nel tempo, il tempo del loro ideatore, ma ancora di più edifici che, improvvisamente, crollano portando alla rovina coloro che erano dentro e nei paraggi.

Prendiamo ad esempio Jeff Bezos, il numero uno (vivente) della classifica, che ha rilasciato all’editor di HBR una intervista.
Quando parla di progetti a lungo termine, di mentalità esplorativa e non da “conquistatore”,  di curare più i clienti che i concorrenti, è evidente che ha intuito, e praticato, delle conoscenze di progettazione strategica che gli hanno permesso di costruire l’impero di cui è a capo. Tali conoscenze non sono però a lui stesso esplicite, basta guardare le presentazioni della Amazon agli investitori: non c’è traccia di un Piano Strategico, manufatto realizzato secondo tali conoscenze, degno di questo nome.
Cosa accadrà all’azienda se Bezos dovesse seguire, cosa che prima o poi accadrà, le sorti del numero uno della graduatoria (Steve Jobs)?
Ma anche: cosa sarebbe in grado di fare in più la Amazon, ma anche tutte le altre 100 aziende citate, se queste conoscenze fossero a loro disposizione?
E, soprattutto, cosa potrebbero fare tutte le altre aziende che non entrano in classifica e affannosamente vivacchiano, o limitano il loro sviluppo, dando la colpa al contesto e non alle loro ridotte capacità di progettazione strategica?
Ecco allora che, in contraddizione con gli studi e i contributi di quella disciplina che si sforza di “insegnare a fare edifici che stanno sempre in piedi” (la strategia d’impresa), queste classifiche celebrano sì le capacità dei singoli, ma svelando il deserto culturale che c’è dietro e che impedisce alle aziende di cui sono a capo di essere ancora più prospere. Soprattutto, però, impedisce che ve ne siano molte di più.
Un culto della personalità che non si riscontra alla base del progresso in altri campi del sapere umano, pur nel riconoscimento di chi ha apporrtato tali progressi. Ma il pericolo maggiore, che ritengo sia una delle cause di fondo dell'attuale crisi,  è che tale pratica sostiene una convinzione sbagliata: il progresso economico e sociale frutto solo delle illuminate capacità di fortunati singoli.

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