"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

venerdì 11 ottobre 2013

Il tabù dei finanziamenti: ma cosa fanno realmente le aziende...

(...per meritare credito?)
di 
Luciano Martinoli


Sole24Ore di mercoledì 9 Ottobre, pagina 7 interamente dedicata ai finanziamenti alle imprese che non vengono erogati e che “bloccano” la ripresa. Si parte dai dati Bankitalia e si passa alle iniziative sul territorio, Padova e Modena, per concludere con un’analisi. La tesi però è sempre la stessa: guai a toccare le aziende, hanno sempre ragione. Ovvero tutte le aziende fanno bene a fare quello che hanno sempre fatto e che continuano a voler fare. Se non riescono a produrre quella ricchezza che tutti ci aspettiamo è perché le banche non le sostengono.
Al di là dell’evidente paradosso, l'attuale sistema economico vede l’azienda come unico motore per produrre ricchezza per tutti gli altri (Stato, Finanza, tutti gli altri stakeholder in generale) e non viceversa, ma perché non si “osa” affrontare la questione della sostanza aziendale, ovvero cosa fanno le imprese, e da qui far discendere un giudizio su se è meritoria di credito o meno?

E’ un vero e proprio tabù di cui sono responsabili, a vario grado, un po’ tutti gli interlocutori: Banche, Pubbliche Amministrazioni ma anche le Imprese stesse e le loro associazioni di categoria. Nessuno osa, o è in grado, di instaurare un dialogo con esse allo scopo di comprendere e stimolare una nuova progettualità imprenditoriale e strategica. 

A Padova ad esempio, per citare un articolo del paginone, si sottolinea l’urgenza di “spezzare la spirale fatta di credito costoso e selettivo che blocca i piani di rilancio”. Ma dove sono questi piani di rilancio? Sono comprensibili e credibili o sono scuse per qualche investimentino per tirare a campare qualche altro anno? 
Inoltre gli strumenti per finanziarsi ci sono e iniziano ad essere utilizzati proprio da quelle PMI per le quali era stato pensato: i Minibond. Il primo è stato emesso da un’azienda del torinese che ha fronte di un fatturato di 4 milioni di euro ha potuto emettere obbligazioni per 3 milioni euro a 5 anni. Non male come finanziamento per un progetto! 
Un membro del team che ha partecipato all’operazione ha dichiarato ad una nostra intervista: “tra 5 anni l’azienda sarà un’altra cosa... o non sarà”. 
Ecco dunque il vero snodo del problema: un cambio di identità finalizzato allo sviluppo attraverso un progetto, non un semplice maquillage progettuale per giustificare un investimento a supporto dell’attuale identità strategica dell’azienda. Un progetto certamente ambizioso, ma anche rischioso sul quale però il mondo degli investitori è stato pronto a scommettere, come il successo dell’operazione ha dimostrato.

A Modena, continuando la lettura, il settore delle costruzioni è al collasso. Nessuna banca vuole più concedere credito legato alla “liquidità delle aziende, con la richiesta di ristrutturazione del debito”. Dunque tale comparto non ha più senso strategico e, di conseguenza, economico ma si richiede, da una parte, di sopravvivere comunque, senza esprimere la capacità di un progetto di rinnovamento che risolva i problemi di fondo. Dall’altra un diniego senza motivazioni a tale sopravvivenza e senza fornire strumenti per stimolare quella riprogettazione identitaria così necessaria. A Modena, come forse in tante altre parti d’Italia, le aziende di costruzioni, forse non tutte ma sicuramente la stragrande maggioranza, hanno la necessità di diventare “un’altra cosa” oppure… non saranno. Vanno aiutate a progettare questa trasformazione, per la quale gli investitori sono pronti a scommettere come nel caso torinese.

Il colmo, a mio avviso, lo si raggiunge con l’articolo di analisi dove si sostiene che tutto si risolverebbe con criteri contabili meno penalizzanti degli attuali, come in altri paesi. Infatti “se gli istituti italiani contabilizzassero i crediti deteriorati come i concorrenti esteri, il totale diminuirebbe notevolmente” e ciò consentirebbe alle banche di bruciare meno capitale ed erogare quella liquidità richiesta dal mercato che invece è disponibile!
E’ come se ci si preoccupasse di metter la polvere sotto il tappeto invece di capire da dove viene e rimuoverne la causa.

Che il problema sia nella comprensione della sostanza delle attività aziendali (che nella Corporate Strategy, disciplina che si occupa di fornire strumenti per questa comprensione, si chiama posizionamento strategico) viene anche ammesso:
“dal 2000 a fine 2013… il credito alle aziende è aumentato del 100%. Nello stesso periodo però gli investimenti e il fatturato delle imprese italiane sono cresciuti solo del 10%, mentre la produzione industriale è addirittura calata del 20%. Questo significa che negli anni d’oro, le banche hanno sostenuto con tanto (forse troppo) credito un sistema industriale che ha aumentato più i debiti che la produzione”.
E in 13 anni nessuno se ne accorto! 
Ma soprattutto nessuno (nè banche, né PA, né aziende, né associazioni di categoria, ecc.) ha fatto alcunchè per capire le motivazioni di questa tendenza negativa e provvedere a una comprensione profonda, con opportuni strumenti professionali, del fenomeno a livello delle singole aziende e suggerire e spronare una progettualità di sviluppo per diventare “un’altra cosa”, pena scomparire (come sta puntualmente accadendo).

Ritengo che non vi sia più spazio e tempo per mantenere posizioni che appaiono sempre più non solo antistoriche ma anche dannose. 
E’ urgente che le banche scendano nel merito delle questioni aziendali, con gli strumenti giusti, non per giudicare ma per stimolare quella progettualità di cui c’è urgente bisogno.
E’ vitale che le aziende avviino tale progettualità per ripensarsi nel profondo e solo dopo decidere le modalità (internazionalizzazione, investimenti strumentali, ecc.) per realizzare questa “altra cosa” che devono diventare.
E’ necessario che la stampa stimoli tutti gli interlocutori ad affrontare questo tema centrale, e non girarci intorno cercando il colpevole di turno, stavolta le banche, poi le tasse, le regole, ecc. senza mai accendere il faro sull’azienda (a meno che sia troppo tardi, vedi Alitalia, Telecomitalia, Ilva,…) e chiedere: ma tu cosa sei in grado di fare per davvero per tornare ad arricchirci tutti?

La “crisi” è una crisi di identità di un sistema. Tale sistema ha perso di senso agli occhi di tutti noi, anche dell’imprenditore che non vuole ammetterlo (ma in cuor suo lo sa benissimo) e continua pervicacemente a chiedere la sopravvivenza della sua creatura moribonda.
Se non si riprogetta tale sistema, a partire da ogni singola azienda, non si farà altro che perdurarne l’agonia, con grave danno per tutti e, soprattutto, per le generazioni future alle quali consegneremo una società cadavere.
E il cattivo odore, sempre più forte, già si sente.


1 commento: