"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

mercoledì 30 luglio 2014

Ma dove vai se un Progetto di Sviluppo non ce l’hai?

di
Francesco Zanotti


Prendete un imprenditore tipico e chiedetegli: mi fai vedere il tuo Progetto di Sviluppo? Usiamo pure una espressione tecnica: il tuo Business Plan?
La maggioranza, al massimo, vi fa vedere un prospetto patrimoniale, economico e finanziario. Altrimenti vi dirà con la più grande tranquillità che non ce l’ha.
Quando un imprenditore si decide a redigere un Business Plan? Quando qualcuno glielo chiede: Banche o Investitori non bancari che siano. E il fare il Business Plan è come compilare la dichiarazione dei redditi: si telefona al Commercialista per farselo fare.
Forse qualcuno dice: ma io ce l’ho ben chiaro in testa. Ma è una stupidaggine. Quando a questo qualcuno chiedete di scrivere quello che ha in testa vengono fuori tre paginette striminzite che non prefigurano nessun progetto di sviluppo. Troppo spesso sono solo un elenco delle cose che servono all'imprenditore per continuare a campare.
Ma se una impresa non ha un proprio Progetto di Sviluppo chiaro nell'indicare il Posizionamento Strategico attuale, come si vuole cambiarlo (ogni conservazione è una follia) e quali sono le cose per riuscirci e quali sono i risultati attesi che possa essere consultato da tutti coloro che devono contribuire  a realizzarlo, dove pensa di andare? Gli rimane il cercare disperatamente qualche titolo per farsi mantenere dalla Stato.
Stiamo costruendo una società dove sono gli imprenditori che cercano in tutti i modi di collettivizzare una economia che non si sa mantenere da sola??
Allora io faccio una proposta a tutti coloro (banche comprese) che vogliono investire nel mondo delle PMI, a qualunque titolo: usate una prima discriminante: se quando andate da una impresa questa non ha già un business Plan ed una voglia matta di mostrarvelo, lasciate perdere subito: waste of time (ora), money (in futuro).
Per le grandi imprese certamente è diverso, penserete. E, invece, no! Abbiamo assegnato un Rating al Business Plan delle imprese degli indici FTSE MIB e Star della Borsa Italiana. E il risultato è che un buon quattro di quelle dell’indice FTSE non espongono un Business Plan. Quelle che lo espongono, mediamente, scrivono Progetti di Conservazione.
Per le Star la situazione è anche peggiore.


venerdì 25 luglio 2014

La nuova Sabatini è una droga?

di
Francesco Zanotti



Rubo questa metafora al mio amico Luciano Martinoli … E’ proprio adatta ...
Si sta cercando di dare una mano (soprattutto alle PMI) a rinnovare le loro strutture produttive.
Ma perché dico che fare questo rischia di essere come drogare le imprese?
Come ho scritto altrove, noi viviamo una crisi da noia: i prodotti (ma anche i servizi) tipici della società industriale stanno perdendo di interesse. Allora la sfida non è produrre meglio. E’ produrre cose radicalmente diverse.
Se si rinnovano gli impianti per continuare a produrre le “cose” di prima, rischiamo che quei capannoni abbandonati di cui dicevamo in un post passato siano anche pieni di costose macchine. Nuove, ma inutili perché destinate a produrre cose che la gente non compra più.
Prima di dare finanziamenti alle imprese per rinnovare gli impianti occorrerebbe chiedere alle stesse imprese un Business Plan che dimostri che grazie a questi impianti l’impresa aumenterà la sua capacità di generare cassa.
Ed occorre dare loro risorse cognitive per riuscire a “scrivere” Business Plan realmente rivoluzionari. E non solo fare piani di ammortamento di impianti tanto lucenti quanto, nella maggior parte dei casi, inutili.

Sì davvero una droga. Perché, come la droga, i finanziamenti destinati, al massimo, a far sopravvivere qualche mese in più diventano sempre più urgenti e ne servono di sempre più grandi.

martedì 22 luglio 2014

Il Commercialista attempato e l’ILVA

di
Francesco Zanotti


Ho letto un paio di giorni fa sul Corriere una intervista a Piero Gnudi, il nuovo Commissario dell’ILVA.
E’ un intervista fatta di luoghi comuni. Come può fare solo un commercialista figlio del potere politico.
Mi limito a riferire delle risposte date alla domanda chiave del giornalista (Fabio Tamburini): ma il fatto che l’ILVA abbia bisogno di liquidità, non significa che è una azienda decotta?

Risposta: certamente no! E le ragioni per cui il dott. Gnudi pensa questo sono sostanzialmente due. Una più preoccupante dell’altra.

La prima: “L’azienda è estremamente efficiente. E’ in crisi per difficoltà esterne.”. Cioè: intende dire che se eliminiamo le “difficoltà esterne”, comincerà a produrre cassa? Intende dire che, se si facesse l’impossibile (fare in modo che nessuno reclami più sulle sue modalità di produrre acciaio) tornerebbe a produrre cassa? No, perché non dispone di una informazione simile. Non c’è un piano che spieghi come la presunta efficienza sia capace di fare generare cassa all'impresa!
Se poi pensiamo che l’estrema efficienza (per altro non dimostrata) riguarda solo l’attuale processo produttivo e non quello nuovo che è vitalmente indispensabile, allora la sua risposta è definitivamente senza senso.

La seconda affermazione parte da una negazione del concetto di impresa. Gnudi sostiene che il rifare uno stabilimento come quello comporterebbe un investimenti di 15 Mld. E che questo stabilimento monstre è situato in una location interessante (al centro del Mediterraneo etc.). Ma dicendo questo dimostra al massimo che lo stabilimento è utile. Non che il far funzionare quello stabilimento potrà generare cassa. Sostiene, insomma, in qualche modo, l’istituzionalità dello stabilimento. Ma se lo stabilimento dell’ILVA va mantenuto dalla collettività perché è utile alla stessa collettività che deve garantire risorse per farlo stare in piedi, allora non ha senso considerarlo una impresa da lasciare alla responsabilità di un azionista privato.

Ma che c’entra il fatto che il dott. Gnudi sia un Commercialista? C’entra perché la strategia d’impresa (il patrimonio di conoscenze e metodologie che servono per costruire un nuovo progetto d’impresa) non è nella disponibilità di un commercialista. Ne ha molte altre, importantissime, ma non questa. Insomma, l’essere commercialisti non è il titolo più adatto a guidare il rilancio strategico di una impresa. A riconferma sta il fatto che la sua priorità è trovare un azionista forte basandosi sulla sciocca teoria della inevitabilità delle concentrazioni.

Occorre riconoscere che la scelta è stata generata dal fatto che il dott. Gnudi fa parte del club di quelli che hanno il patentino della autorevolezza. Figlia della vicinanza politica ed amicale. E non è necessario specificare oltre, perché tutto è noto a tutti.

E quell’“attempato” politicamente scorretto? Mica è un delitto essere attempati. No! Lo diventa solo se si tradisce il ruolo sociale fondamentale (confermato dalle neuroscienze) di chi è attempato: quello di fare sintesi. E ci si imbarca in un estenuante lavoro di rilancio industriale che è certamente (cognitivamente) più adatto a persone più giovani. Io credo che il Presidente di una società debba essere una persona attempata, l’Amministratore delegato una persona giovane.

Se leggete l’intervista, vedete che la sintesi non è il valore fondamentale che ispira il dott. Gnudi: non capisco questo, quell'altro neppure …

Conclusione: noi cittadini (direttamente o con la mediazione delle banche) aspettiamoci di dover tirar fuori ancora per lungo tempo tanti soldi.

venerdì 18 luglio 2014

Variabili qualitative per la valutazione del merito di credito. Vogliamo usarle davvero?

di
Francesco Zanotti


Quando volete stringere una vite usate il cacciavite, quando dovete piantare un chiodo usate il martello.
Se volete costruire un ponte usate il calcolo strutturale, non chiamate l’amico del cuore.
Giusto, vero?.
Bene, lo stesso occorrerebbe fare per usare le variabili qualitative per valutare il merito del credito. Occorrerebbe usare gli strumenti che servono a questo scopo.
Quali sono questi strumenti? Sono le conoscenze e le metodologie di strategia d’impresa. Sono gli strumenti e le metodologie di strategia d’impresa che permettono di usare le variabili qualitative per valutare il merito del credito.
Non solo occorrerebbe usare queste conoscenze e metodologie, ma occorrerebbe cercare le più avanzate esistenti perché la valutazione sia la più efficace possibile.
Giusto, vero?
E, invece, no! Oggi le conoscenze e le metodologie di strategia d’impresa sono pressoché sconosciute. E nessuno cerca di colmare questo gap cognitivo. Anzi, se proponete di colmare questo gap, vi rispondono con un silenzio infastidito.
Stamattina ho letto da due articoli diversi sul Sole 24 Ore dove si dice che l’utilizzo delle variabili qualitative per valutare il merito di credito sta diventando una priorità per Confindustria e IntesaSanPaolo. Ne parla esplicitamente il dott. Squinzi. Indirettamente conferma il dott. Messina.
Allora mi sono deciso ascrivere questo post.
Egregi Signori prendete in considerazione l’utilizzo delle metodologie e delle conoscenze di strategia d’impresa per usare le variabili qualitative  per valutare il merito del Credito.
Sappiate che esistono conoscenze e metodologie di strategia d’impresa che sono completamente sconosciute a banche (vale anche per le più blasonate tra quelle internazionali) e imprese (anche le più importanti). Fate in modo che i valutatori (i funzionari di banca) e i valutati (i CEO o gli imprenditori) conoscano queste conoscenze e metodologie.
Per inciso, Dott. Messina, mi permetta un suggerimento: soprattutto faccia in modo che conoscano ed utilizzino queste conoscenze e metodologie coloro che stanno trattando i dossier per voi più delicati.


mercoledì 16 luglio 2014

La "voglia di futuro" del gotha delle aziende italiane

di
Luciano Martinoli


E' disponibile, nella sua versione finale, il III Rapporto sul Rating Business Plan aziende FTSE MIB e STAR. In documento separato (Redigere e valutare Business Plan) è accessibile la descrizione del "modello" rispetto al quale si è fatto il rating, frutto del lavoro di ricerca da noi effettuato sullo stato dell'arte della Strategia d'Impresa e non solo, e il processo stesso di rating.
Quale è il significato profondo di questa attività? Come può essere utilizzato per il dibattito, e la pratica, dello sviluppo delle imprese e, più in generale, del nostro paese?

martedì 15 luglio 2014

Piano industriale per l’Italia: manca il “cuore”

di
Francesco Zanotti


Carlo Calenda, Vice Ministro per lo Sviluppo, propone oggi sul Sole 24 Ore la sua “scaletta” di un Piano industriale per l’Italia.
Ecco, manca il cuore di questo Piano: il ruolo dell’impresa.
Mi spiego.
A parte il fatto che si tratta di idee che circolano da anni e che se non fossero firmate da un vice ministro nessuno avrebbe pubblicato, tutto il Piano è fondato sull'ipotesi che il nostro sistema industriale sostanzialmente vada bene così come è!
Parla, è vero, di competitività dell’offerta, ma dice che la si ottiene agendo sul sistema non sull'impresa: taglio del costo del lavoro, dell’IRAP, investimenti pubblici e spending review.
Come a dire: le nostre imprese sono pronte a conquistare il mondo se le liberiamo dai lacci e dai lacciuoli che le incatenano.
Ecco .. non è vero. Oggi siamo in crisi perché il sistema di prodotti e servizi che producono ed erogano le nostre imprese sono sempre meno “interessanti”. Sono espressione di una società che ha esaurito la sua funzione storica: la società industriale.
Il vero problema è che le imprese, mediamente, non vanno bene così come sono. Devono, prioritariamente, riprogettare la loro identità strategica. Non si può partire dall'alto occorre partire dal basso.
Occorre un Piano per l’Italia che sia un piano di riprogettazione della identità delle nostre imprese.
Si tratta di un Piano che deve fondarsi sulla conoscenza: solo dotando le imprese di conoscenze e metodologie di strategia d’impresa riusciranno in questo sforzo.
Si tratta di un Piano che rivoluziona il ruolo delle banche delle Associazioni di categoria, delle Camere di Commercio …
Oltre alla impostazione presentata, non riesco certo a indicare, in questa sede, quelli che credo debbano essere i contenuti di un Piano industriale per l’Italia. Sarà oggetto di una nostra pubblicazione.
Mi conceda, però, caro Viceministro, di concludere che oggi di un Piano industriale per l’Italia non solo non abbiamo la “scaletta”, ma neanche l’indice!



sabato 12 luglio 2014

Dopo Indesit: le vie per un nuovo miracolo economico!

di
Francesco Zanotti


Non voglio commentare la vicenda Indesit. Voglio provare ad esplorare le radici del miracolo economico italiano per capire come si possa ripetere quello straordinario movimento di popolo. Perché, detto tra di noi, non abbiamo altro modo per tornare a costruire sviluppo che ripetere un altro miracolo economico e sociale.
Alla radice vi erano una visione del mondo a mobilitare ed una antropologia ad ispirare.

La visione del mondo era “costruttivista”: le imprese costruiscono mercati e società che prima non c’erano. Inventano il futuro, non si adattano ad un futuro predeterminato non si sa neanche bene da chi. Mi si dirà che allora uscivamo da una guerra che aveva distrutto tutto: costruire era l’unica opzione possibile. Rispondo in due modi. La prima risposta è che, in ogni caso, anche se costretti abbiamo costruito una nuova economia ed una nuova società, non abbiamo rifatto l’economia e la società di prima. La seconda è: ma ci vuole davvero un’altra guerra per far capire che la società e l’economia che abbiamo costruito allora ha esaurito il suo ciclo vitale? Ricordate cosa diceva Einstein “Io non so come si combatterà la terza guerra mondiale, ma so come si combatterà la quarta: con le clave!”.

L’antropologia era quella dell’uomo americano, apparentemente soddisfatto nella abbondanza delle cose.

Con queste due risorse siamo partiti a costruire une declinazione tutta italiana della economia e della società americana.

Come dicevo, ora tutto questo ha esaurito la sua spinta vitale. La società del benessere delle cose (e di quelle cose) non può essere la società mondiale futura.
Per costruirne un’altra, dobbiamo ritornare a credere nella capacità di costruire nuovi mondi vitali e dobbiamo immaginare quale nuova antropologia perseguire.
Vi sono tutti i Segnali per riuscirci.

Visione del mondo ed antropologia, allora, sono le variabili su cui agire. Non riforme e competitività.


mercoledì 9 luglio 2014

Le riforme aiuteranno davvero le imprese a generare cassa?

di
Cesare Sacerdoti

I giornali riportano la frase di Squinzi a Benevento: “Riteniamo prioritario fare le riforme nel nostro paese”.

Innanzitutto ci si chiede prioritario rispetto a cosa? Sperando che la frase non voglia dire “noi stiamo fermi, aspettiamo le riforme e poi ci rimettiamo in moto”, anche perché, nel frattempo il mondo cambia e non è detto che le riforme auspicate oggi, ci chiediamo, proprio alla luce della situazione attuale, se siano adatte al mondo di domani.

In seconda istanza viene spontaneo chiedersi quanto le riforme che cerchiamo di fare possano dare un contributo sostanziale per permettere alle aziende italiane di riprendere a generare cassa. Abbiamo detto tante volte su questo blog, quanto questo sia l’obiettivo primario per il sostentamento delle aziende stesse e con esse per il miglioramento delle condizioni  economiche e sociali del nostro Paese.

Io credo che l’attesa di qualche intervento risolutivo, che provenga dal di sopra (politico e istituzionale) delle nostre aziende, suoni sempre più come un alibi, un alibi che giustifica la ridotta capacità di generare autonomamente sviluppo del nostro sistema di imprese. 

Un esempio concreto, semplice, ci viene da Expo 2015: lasciando stare le diatribe sul tema, sulla location, sulle infrastrutture, sulla corruzione ecc., potremmo vedere questo evento come un’opportunità che i nostri Governi hanno fornito a Milano, ma anche alla Lombardia e ai territori circostanti, per generare sviluppo duraturo, per definire nuove strategie territoriali, per far nascere nuove imprese, nuovi centri ricerca, ecc., che diano al territorio nuove prospettive future, approfittando della grande visibilità e del volano di interessi a breve che Expo2015 ha generato in questi anni di preparazione, e genererà nei 7 mesi di esposizione.
E, invece, vediamo il nulla: non si è praticamente mai parlato altro che di infrastrutture da realizzare e di come utilizzarle dopo la fine dell’evento.

Non si è discusso di contenuti. Non si è definito un nuovo posizionamento strategico di Milano. Non si sono attirati investimenti. Non sono nati nuovi poli industriali nei temi che l’esposizione tratta direttamente (cibo e energia) o indirettamente (rapporti nord-sud del mondo, smart city tanto per fare degli esempi). Non sono nate nuove facoltà universitarie o nuovi centri di ricerca.
Ma, al momento, non si vede neanche una capacità delle nostre imprese e delle istituzioni di sfruttare l’occasione per promuovere i propri prodotti, i territori.

Ci è stato detto che Expo2015 impatterà su un’area di almeno 300 km di diametro (cioè da Torino a Vicenza, da Como a Bologna), eppure al di fuori del centro di Milano la parola Expo è sconosciuta: non si vedono pro loco che attirino turismo, né associazioni di produttori dei vari cibi o bevande che promuovano eventi per farsi conoscere. Eccetera.

Allora la domanda che viene spontanea è: la colpa è davvero di chi ci governa? È del Presidente del Consiglio che non ci dà i fondi? O della Regione? O del Sindaco?
E perché non delle associazioni industriali o commerciali? E giù fino alle associazioni di categoria o alle associazioni territoriali? E, poiché esse sono formate da Imprese, da Enti, da Istituzioni locali, allora, forse, tutti noi abbiamo la responsabilità di non cogliere l’opportunità che ci è stata fornita.
Tornando quindi alla frase di Squinzi, ci viene spontaneo chiederci se allora la “priorità” non debba essere quella di ridare alle imprese la capacità di generare sviluppo. E questa non dipende dal Governo o dalle sue strutture: là fuori c’è un mondo da creare e lo creeremo tutti  insieme, se vogliamo, se ci crediamo. 

venerdì 4 luglio 2014

Liquidità si o no? Lettera aperta a Morya Longo … e al Sistema bancario

di
Francesco Zanotti


Caro Dottore,
ho letto con attenzione il suo articolo di oggi sul Sole 24 Ore nel quale propone una analisi stringente (e anche brillante, se mi consente) del dilemma a cui si trovano di fronte le Banche Centrali: “sadomonetarismo” (le strette creditizie) o “metadonismo” (generare liquidità a iosa).
Ed è, aggiungo io, un dilemma che somiglia molto a quello, più antico, dell’asino di Buridano: tutt'e due le alternative hanno le loro buone ragioni. E si rimane lì incerti su quale adottare. Rischiando (le imprese) di drogarsi o morire di fame.
Io credo che quando ci si trova di fronte a due poli opposti, ma entrambi attrattivi, è inutile cercare di scegliere. Occorre guardare da un’altra parte, come suggeriva Einstein.
In questo caso occorre guardare al “sottostante” della finanza: l’economia reale.
L’espansione della base monetaria ha senso solo se serve a finanziare lo sviluppo dell’economia.
Ma come si genera lo sviluppo dell’economia?
La nostra opinione, certo eterodossa, è che tocca alle banche. Non certo fornendo soldi (anche), ma conoscenza. Mi spiego.
Le imprese possono superare la crisi solo attraverso progetti di futuro alti e forti che permettano loro di costruire nuovi prodotti ed erogare nuovi servizi che siano ologrammi di una nuova società. Niente di meno.
E come si fa a far sì che le imprese possano dotarsi di questi progetti di futuro alti e forti? Occorre che si forniscano loro nuove risorse cognitive (in particolare le conoscenze e le metodologie di strategia d’impresa) per guardare diversamente il mondo e per saper, poi, progettare un nuovo mondo.
Se le banche non vogliono disperdere in sofferenze le risorse che hanno investito o investiranno, dovranno fornire loro queste risorse cognitive alle imprese. Nessun altro può farlo.
Per altro, anche le banche hanno bisogno di ridisegnare il loro “mestiere”. Rimanendo ancorate solo e soltanto ai servizi finanziari, non riusciranno a sviluppare un nuovo sistema bancario. Aggiungendo ai servizi finanziari, servizi di conoscenza ci riusciranno.
Le banche parlano tanto di “responsabilità sociale”. Ma, poi, finiscono per fare “charity” o mecenatismo. Io credo che la loro vera responsabilità sociale sia quella di trovare il modo di aiutare le imprese a costruire sviluppo.
Nel passato bastava fornire soldi. Oggi è necessario che forniscano anche conoscenza.
Mi piacerebbe molto poter pubblicare sul nostro Blog una sua risposta. Manderemo, poi, questo post ai protagonisti del sistema bancario per raccogliere anche le loro reazioni.
Così ne nascerà un piccolo librettino da mandare ai Responsabili delle Banche Centrali per aiutarle ad uscire dalla scomoda situazione del tipo “asino di Buridano” in cui come lei ha così ben descritto, si trovano.
Grazie ed un cordiale saluto

Francesco Zanotti 

martedì 1 luglio 2014

La ripresa non arriva e non arriverà

di
Francesco Zanotti


Tutti stanno aspettando la ripresa. Ma questa tarda ad arrivare. Se va bene, quest’anno la variazione del PIL non sarà negativa.
Ecco, io penso che la ripresa non solo non arriva, ma non arriverà mai.
Per ripresa si intende un aumento del PIL, ma ottenuto come? Con un ritorno al passato. Ai bei tempi quando si cresceva. I cambiamenti che si vogliono mettere in atto sono banali, ad effetti calanti, con esigenze di investimenti crescenti.
La stessa parola “ripresa” indica la voglia di ritorno al passato. Per convincervene fate un confronto: nessuno definirebbe il Rinascimento la ripresa del Medioevo.
Non c’è nulla da fare: per uscire dalla recessione dobbiamo costruire una economia radicalmente nuova. Le nostre imprese devono riprogettare radicalmente i loro prodotti e servizi.
Le parole chiave non sono “ripresa” e “competitività”, ma “progettualità” e “risorse cognitive”.
Le nostre imprese devono avviare una nuova stagione di progettualità per immaginare nuovi prodotti e servizi come ologrammi di una nuova società. La si deve vedere in filigrana in tutti i nuovi prodotti e servizi questa nuova economia e questa nuova società
Per riuscire ad attivare questa nuova e più intensa progettualità sono necessarie nuove risorse cognitive. In particolare conoscenze e metodologie di strategia possibili. Le migliori al mondo.
Attraverso queste risorse cognitive si genereranno piani strategici alti e forti.

E trovare chi finanzierà progetti di sviluppo alti e forti non sarà un problema. Ci impegniamo noi a farlo.