"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

lunedì 27 ottobre 2014

Stress test: reazione istituzionale o imprenditoriale?

di
Francesco Zanotti


Come possono reagire le due banche bocciate agli stress test?
Mi immagino due reazioni possibili.
La prima è quella che accadrà più probabilmente: la reazione istituzionale. E’ rappresentata dalle dichiarazione del Presidente di MPS: siamo disponibili a qualunque operazione. Intende ovviamente: operazioni sul capitale.
Ma ne esiste una seconda? Certamente sì! La definisco “imprenditoriale”. L’attuare questa reazione trasformerebbe veramente la banca in una impresa. In cosa consiste? Bene, ci sono nove mesi di tempo, allora le banche in oggetto progettino velocemente e propongano velocemente sul mercato nuovi sistemi di servizio che generino utili. Contemporaneamente mobilitino la loro organizzazione saltando tutte le burocrazie della formazione e del change management che impiegano anni per non sviluppare nulla e costano un botto.
Ovviamente mi si dirà che non è possibile. Certo se i Vertici delle Banche non rinnovano il sistema di risorse cognitive di cui dispongono non riusciranno certo a vedere i nuovi spazi di servizio, un nuovo ruolo sociale  e le nuove modalità di sviluppo delle organizzazioni. O arriveranno al massimo, alla stratosferica proposta di vendere anche frigoriferi.
Mi si obietterà ancora: ma ci sono solo nove mesi. Contro obietto: usando le nuove risorse cognitive disponibili, ma sconosciute nelle banche è possibile. E, poi, non è più dignitoso chiedere soldi agli azionisti per realizzare un grande piano di rivoluzione strategica, piuttosto che piagnucolando: mi hanno detto che mi manca il capitale, datemelo voi, ovviamente per continuare a fare banca come prima.
Concludo: ma come fanno le banche a capire gli imprenditori se non si decidono a provare a sperimentare la logica, la prassi e la cultura imprenditoriale? Continueranno a cercare di finanziare imprese che oramai si considerano istituzioni come loro.  E al prossimo stress test i bocciati saranno molti di più.



giovedì 23 ottobre 2014

Il futuro delle banche: macché tecnologia

di
Francesco Zanotti


L’occasione per questo post è un articolo di Ana Patricia Botin sul Sole di Oggi.
Figlia di cotanto padre, si ritrova, però, a balbettare. Sbagliando sfide.
Come tutti, dice che la sfida è il cliente retail che si porta con sé la sfida delle tecnologie.
Poi dichiara che anche una grande banca deve considerarsi una start-up. E subito dopo finisce con dichiarare che tutto dipende dal Regolatore: cosa permette o non permette alle banche di fare.
Se ci fosse ancora Bartali, direbbe: “L’è proprio tutto sbagliato, l’è tutto da rifare.”.
Innanzitutto la sfida principale della banche non è il cliente retail, ma il cliente corporate, sia grande che piccolo. Ed è una sfida non perché il cliente corporate desidera nuovi prodotti finanziari (magari tecnologicamente supportati), ma perché sta sparendo. E sta sparendo per consunzione competitiva e per la noia mortale che oramai generano i prodotti che offre.
Questo significa che imprese (grandi e piccole) riusciranno a sopravvivere e crescere solo se compiranno rivoluzioni strategiche, soprattutto nei loro sistemi d’offerta. Ne devono inventare di radicalmente nuovi.
Forse è banale ricordarlo, perché nessuna banca sembra capire questa banalità: se le imprese muoiono, scompare anche ogni mercato retail.
La banca che può fare? Aiutare le imprese a generare rivoluzioni strategiche. Come? Acquisendo e rendendo disponibili alle imprese conoscenze e metodologie per stimolare la progettazione imprenditoriale perché queste sappiano generare Progetti di futuro alti e forti. E, poi, utilizzando queste conoscenze e metodologie per saper valutare la reale novità ed efficacia dei Progetti di futuro delle imprese.
Il problema non sono le tecnologie ICT (che sono, ricordiamolo, sia hardware che software). Esse sono solo necessarie come tutte le commodities. La sfida è cognitiva, non tecnologica. La sfida consiste nell'acquisire nuove conoscenze che sono sostanzialmente le conoscenze e le metodologie di strategia d’impresa.
In questo modo la banca diventa davvero una start-up.
Allora, però, scoprire che le servono anche nuove conoscenze e metodologie organizzative per trasformare le burocrazie bancarie in corpi vivi che hanno come obiettivo, invece che la sopravvivenza, la costruzione di una rivoluzione strategica nel fare banca. Una rivoluzione strategica che porta la banca non solo a vendere finanza e nuovi servizi finanziari, ma a vendere, prima della finanza e come garanzia che il vendere finanza non diventi generare sofferenze, conoscenze, metodologie e servizi di progettazione strategica.
Questo significa, per inciso, che è inutile andare a cercare manager nuovi o giovani. Il problema sono le conoscenze e le metodologie strategico-organizzative di cui nessun manager bancario (giovane, anziano o mezzano che sia) oggi dispone e che sono assolutamente indispensabili per rivoluzionare il fare banca.
E i Regolatori? Se la banca inizia a vendere ed usare conoscenze e metodologie di strategia (come deve fare per sopravvivere) il Regolatore manco se ne accorge.
Il Regolatore deve servire come cartina di tornasole: se la banca pensa di progettare una innovazione e si accorge che il Regolatore ha un ruolo, allora capisce subito che non si tratta di una innovazione che costruirà un nuovo futuro per le imprese cliente, quindi per il cliente retai e, alla fine, per la banca stessa. Ma si tratta solo di un rimescolamento del presente, anche se, magari, tecnologicamente scintillante.


martedì 21 ottobre 2014

Talenti, merito e... deriva sistemica

di
Luciano Martinoli


La rivista Harvard Business Review ha pubblicato, come ogni anno, la lista dei migliori CEO al mondo
Come sono stati valutati questi signori per entrare nella classifica? Attraverso tre parametri che hanno a che fare con le azioni: il ritorno per gli azionisti sul valore di borsa, sul valore rispetto al settore industriale e l'incremento della capitalizzazione globale. Dunque, in sintesi, come hanno arricchito i "soci" delle aziende che gestiscono.
Ma chi sono questi maghi del management?

lunedì 20 ottobre 2014

Crisi di significato. Prima puntata

di
Francesco Zanotti
f.zanotti@cse-crescendo.com francesco.zanotti@gmail.com




Il sistema delle imprese, nella società industriale, ha avuto come mission (ovviamente individuabile solo oggi, ex post, una mission emergente) quella di soddisfare le esigenze “igieniche” (cioè di sopravvivenza materiale) di grandi masse di popolazione. Impresa compiuta, almeno nelle società occidentali. Ma l’aver avuto successo sta generando l’esigenza di qualcosa di nuovo, sia nelle società occidentali e sia nel resto del mondo.
Come a dire che l’attuale sistema delle imprese sta esaurendo la sua funzione storica.
L’indicatore fondamentale con cui misurare l’intensità di questo fenomeno di degenerazione è la noia …

Nelle società occidentali …
La noia, come preconizzava Moravia, è forse il sentimento più tipico della fase avanzata della società industriale … Specularmente, la perdita della capacità di suscitare stupore è il problema del nostro sistema imprenditoriale perché genera la noia dei … clienti ...

Prodotti che interessano sempre meno
Il soddisfacimento delle esigenze di sopravvivenza ha fatto emergere nelle persone esigenze di autorealizzazione sempre più sofisticate. Detto diversamente, sta emergendo una nuova antropologia (il desiderio di una modalità di vita e di socialità diverse) che sta generando una deriva di significato e di funzionalità dei beni prodotti dalla società industriale: da un’intensa esistenzialità ad una poco interessante funzionalità. Questa deriva di significato e di funzionalità si porta dietro, ovviamente, una deriva di valore: parallelamente al perdere di significato e di funzionalità i prodotti perdono di valore.

Provo a descrivere brevemente questa perdita di significato e funzionalità.
Queste derive di significato e, quindi, di valore sono in atto da tempo. Esse sono state, fino ad oggi, mascherate (sempre più intensamente negli anni scorsi, fino al raggiungimento del loro culmine negli anni ’80) dal continuo arricchimento dei prodotti della società industriale, soprattutto di consumo, attraverso l’innovazione tecnologica, stilistica, comunicazionale e prestazionale. Questo arricchimento è riuscito a fare diventare molti di questi prodotti simboli di stili di vita desiderabili, tanto che acquisirli ed esibirli è diventato strumento di posizionamento e riscatto sociale. Il mascheramento ha funzionato così bene da creare una bolla artificiale di consumi.

Lo scoppio della bolla finanziaria ha generato, quasi per risonanza, anche lo scoppio di questa bolla di consumi della cui esistenza vi erano solo vaghe (e troppo ideologiche per essere diffusamente condivise) percezioni. Ed è stato uno scoppio “completo e irreversibile”. Le persone hanno iniziato seriamente a demitizzare i prodotti fino a farli tornare al loro significato funzionale. Ma non si sono fermate a questo: ne hanno ridimensionato anche la funzione perché molte prestazioni che sembravano indispensabili si sono rivelate esserlo sempre meno.
E’ apparsa di questi prodotti tutta l’artificialità.
Insomma, lo scoppio della bolla finanziaria ha fatto scoppiare anche la bolla di senso della società industriale.

Mille fenomeni stanno a testimoniare della progressiva perdita di significato e di valore del “sistema di prodotti” della società industriale.

Il primo di questi fenomeni è il crescente ruolo e successo dei saldi. Esso sta chiaramente ad indicare che sempre più persone pensano che molti prodotti, soprattutto di vestiario, siano sopravvalutati. E li comprano solo, quando, attraverso i saldi, ridimensionano il loro prezzo.

Altro fenomeno rivelatore è l’esplosione degli outlet che stanno isolando l’acquisto in luoghi artificiali, completamente sganciati dalla socialità comunitaria che caratterizzava i negozi di prossimità. Quasi ad indicare che l’acquisto sta diventando quasi un mestiere, inevitabile, ma non così carico di significati relazionali.


Ma il fenomeno più rivelatore colpisce quello che forse è il settore trainante di tutto l’attuale sistema industriale: il settore dell’auto.

mercoledì 15 ottobre 2014

Le sofferenze sono un problema di conoscenza … e di coscienza.

di
Francesco Zanotti


Oggi Fabio Pavesi sul Sole 24 Ore riferisce del Rapporto mensile di ABI.
Ovviamente parla di sofferenze in aumento. Ma anche del fatto che le banche fanno sempre più raccolta attraverso il risparmio che con i prestiti obbligazionari.
Allora, l’aumento delle sofferenze sarà destinato ad aumentare e di molto. La ragione è che i prestiti che le banche concedono oggi verranno rimborsati domani. Ma le banche li danno in base alla capacità di rimborso che le aziende hanno oggi e non hanno le conoscenze per capire quale sarà nel futuro la capacità di generare cassa nel futuro delle imprese. Di più: poiché le imprese da sole non riescono a rinnovarsi, le banche dovrebbero dare loro una mano nell'aumentare la loro capacità di progettazione strategica (chi se non le banche?). Ma per far questo hanno ancora meno competenze.
Ora aggiungete che i soldi che prestano arrivano sempre più direttamente dai depositi dei risparmiatori e vedete voi se non sarebbe il caso di dotare le banche delle conoscenze e delle metodologie che permetterebbero loro non solo di capire, ma anche di aiutare a progettare un nuovo futuro per le imprese. Se non lo facciamo, dobbiamo sapere che ne andrà di mezzo il risparmio. Come suggerisce il titolo: un problema di conoscenza che diventa un problema di coscienza.


giovedì 9 ottobre 2014

Tesi di Laurea comprate e... Business Plan

(ovvero sulle conseguenze del falso)
di
Luciano Martinoli


Recentemente è balzato agli onori della cronaca, come spesso purtroppo periodicamente accade, lo scandalo delle tesi di laurea acquistate.
Dove risiede lo scandalo? 
Al di là del reato previsto dal nostro ordinamento (legge 19 aprile 1925, n. 475. Repressione della falsa attribuzione di lavori altrui da parte di aspiranti al conferimento di lauree, diplomi, uffici, titoli e dignità pubbliche) la tesi di laurea è "una dissertazione scritta con lo scopo di dimostrare la compiuta conoscenza di un argomento" come si legge dal sito di una Università. 
Dunque non è il documento in se per se che è importante ma la testimonianza di ciò che è avvenuto prima. Migliore sarà il documento migliore sarà stato il processo che l’ha prodotto, più meritorio sarà lo studente che lo ha prodotto. Acquistare la tesi significa dimostrare inequivocabilmente che tale processo non c’è stato, che ciò che si propone, la tesi, non corrisponde alla qualità del proponente.
Insomma un falso bello e buono, anche riguardo la persona.
Cosa c’entrano i Business Plan?

lunedì 6 ottobre 2014

Il Business Plan solo come adempimento

di
Francesco Zanotti


La crisi sarà superata quando si riavvierà una progettualità imprenditoriale alta e forte.
Oggi, al massimo, si arriva a parlare di investimenti. Ma il problema è in cosa si investe. Ha senso soltanto investire per realizzare una rivoluzione strategica delle imprese, frutto dell imprenditorialità alta e forte di cui sopra.
L’imprenditore ha certamente la cultura della progettualità.
Ma questa cultura rischia di diventare sterile. Un po’ per colpa sua, ma, soprattutto, per colpa di coloro che gli stanno intorno.

Mi spiego.
Ai tempi del miracolo economico italiano la cultura della progettualità si è dispiegata alta e forte perché l’imprenditore disponeva delle risorse cognitive necessarie per metterla in pratica.
Le esigenze a cui rispondere erano evidenti: una migliore qualità della vita materiale.
Esisteva un modello di società di riferimento: la società americana. Le tecnologie da utilizzare erano, dopo tutto, semplici e le competenze necessarie per usarle potevano essere apprese anche senza seguire corsi formali di studi. Esisteva il ricordo mai perso della abilità artigianale rinascimentale.
Con queste risorse cognitive sviluppava progetti d’impresa impliciti (nessuno gli chiedeva di renderli espliciti) e li realizzava.

Oggi le risorse cognitive di cui dispone (che sono il nutrimento della progettualità) sono rimaste quelle di allora, salvo poche eccezioni. E non sono più sufficienti. La progettualità allora si aggrappa solo a stereotipi: dalla internazionalizzazione alla competitività.

Da un po’ di tempo si è cominciato a chiedergli un Business Plan. Ma questa richiesta ha ancora di più depresso la sua capacità progettuale.
Infatti, un modello di Business Plan è la risorsa cognitiva chiave per riattivare la progettualità dell’imprenditore. Più è ricco il modello di Business Plan, più questo riesce a nutrire la sua cultura della progettualità.
Purtroppo chi gli propone di fare un Business Plan gli propone modelli di Business Plan molto poveri. E anche non espliciti: la somma di tante cose (tante caselle) conosciute per sentito dire. Lo dimostra il fatto che mai accade che chi propone di fare un Business Plan disponga di un documento  dove descrive il modello di Business Plan che intende utilizzare.
Poi, genera confusione semantica perché usa un accezione limitatissima del termine Business Plan: è costituito solo dai conti. Un business plan con le minuscole. E definisce piano industriale le cose che occorre fare (cambiamenti, idee etc.). Così si hanno due oggetti (Il piano industriale e il business plan) che non si parlano. Si giustappongono e finisce che la loro “somma”, il Business Plan con le lettere maiuscole, invece che essere una grande progetto di sviluppo dell’impresa, è una sorta di presentazione dell’impresa, con qualche orpello stucchevole ed inutile come la SWOT Analysis, che finisce con conti il cui legame con SWOT Analysis se tutto il resto non esiste.

Ma c’è di più. Il modello di Business Plan dovrebbe essere usato dall'imprenditore in prima persona: dovrebbe permettergli di ragionare sulla inadeguatezza dell’oggi, di vedere le potenzialità di domani e concretizzarle in nel suo progetto d’impresa. Ma chi gli propone di fare il Business Plan pretende di farlo in prima persona, come esperto di Business Plan.
Il risultato non è solo la banalità dei Business Plan di cui abbiamo detto, ma il fatto che il Business Plan viene considerato dall'imprenditore non lo strumento fondamentale per immaginare il proprio futuro, ma come un adempimento burocratico come tanti.
Lo strumento burocratico da usare con chi gli fornisce i soldi.

La scena è, ancora, purtroppo, un po’questa ... Un imprenditore presenta alla banche, ad un fondo di Private Equity, a chi acquista minibond il suo Business Plan. Ma lo presenta come si presenta un documento burocratico che è finalizzato alle richieste del burocrate di turno. Deve essere compilato come il burocrate chiede. Così gli daranno i soldi (come i burocrati danno i permessi) per fare quello che tiene nascosto nella testa, che oggi, per tutte le ragioni dette prima non è più sufficiente e che nel Business Plan trova solo burocratici echi.

giovedì 2 ottobre 2014

Ma che fiducia …

di
Francesco Zanotti


Post sintetico, quasi come un sillogismo …
Tutti stanno a parlare di fiducia: se aumenta la fiducia ripartono i consumi e l’economia, altrimenti no.
Mi sembra una convinzione sciocca.
Il problema di fondo è che sempre più prodotti di sempre più imprese sono sempre meno interessanti. Viceversa, quando un prodotto è giudicato esistenzialmente interessante, si fanno le code per comprarlo.
Allora il problema non è aumentare la fiducia, ma riprogettare radicalmente prodotti e servizi. La fiducia sarà il sottoprodotto di una nuova, più intensa, profetica progettualità strategica.
Ricordate: solo il pesce morto si "adatta" al flusso dell'acqua ...