"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

giovedì 26 febbraio 2015

Business Plan: che confusione!

di
Francesco Zanotti

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Ma cosa caspita si intende con “Business Plan”? Tante cose, ma tutte hanno una caratteristica comune: non interessano all'imprenditore. Occorre allora buttare tutto all'aria … buona ... in un prossimo post
Vediamo più in dettaglio.
Il pensiero mainstream con l’espressione “Business Plan” intende un documento che contiene una descrizione qualitativa (tendenzialmente solo ornamentale) dell’impresa più la parte sostanziale che è costituita dai conti che sono generati attraverso le famose “assumption”. Il mondo della finanza utilizza l’espressione “Information memorandum” che ripete lo schema “descrizione dell’impresa più conti previsionali fondati su assumption”. Tra descrizione qualitativa e previsioni quantitative vi è solo una vicinanza letteraria: sono scritte l’una dopo l’altra. Il generare la parte qualitativa del Business Plan (a maggior ragione dell’Information Memorandum) sembra essere solo un atto dovuto, ma poi nessuno sa cosa farsene. La si sfoglia velocemente e si passa alla sostanza. Cioè ai numeri.
In pratica, i lettori di un Business Plan si soffermano solo sui numeri. Ed utilizzano per valutarli non la descrizione che viene fatta dell’impresa, ma la loro “conoscenza” del settore di riferimento dell’impresa.
Accanto, insieme, ma staccato, esiste il Piano industriale che, nella vulgata comune è una Piano di trasformazione dell’impresa che viene fatto da professionisti diversi da coloro che fanno il Business Plan.
Poi esiste il Business Plan delle start-up che è (dovrebbe essere) un insieme “coerente” di Piano industriale e Business Plan.
Da ultimo esistono le espressioni qualitative come “Progetto strategico” e “Progetto di Sviluppo” che indicano aspirazioni più che, ma non hanno un format (contenuti specifici) di riferimento.
In tutta questa confusione l’imprenditore non sa bene a cosa serva un Business Plan. Pensa che sia un’ulteriore pratica burocratica che occorre fare per ricevere denari. E sta a guardare quelli che fanno (e litigano tra di loro per farlo) per lui un Business Plan il cui format si è andato formando e impoverendo nel tempo. Mentre guarda continua a gestire la sua impresa nell'attesa che chi scrive Business Plan e chi lo valuta si mettano d’accordo in modo che, finalmente, gli arrivino i soldi in modo che egli possa continuare a realizzare il vero Business Plan che sta solo nella sua testa.
Insomma, ogni imprenditore farebbe volentieri a meno di fare il Business Plan di cui oggi si parla.
E arrivo all'aria buona, anche se solo suggerita
Io credo che questo strano equilibrio di mondi professionali che vogliono far fare a tutti i costi un Business Plan agli imprenditori che, però, accettano di farlo solo sotto “ricatto” (se non fai il Business Plan non ti do soldi) sia da cambiare radicalmente. 
Il primo passo è quello di ripensare al senso e ai contenuti di un Business Plan. Con questo cambiamento fare il Business Plan diventa il momento centrale della gestione strategica dell’impresa. Ma di quale possa essere questo nuove senso del Business Plan e attraverso quali contenuti lo si realizzi, sarà tema di un prossimo post.


lunedì 23 febbraio 2015

Le banche e il caso Etruria

di
Francesco Zanotti


Curiosamente nella stessa pagina di Affari&Finanza compaiono due articoli che indicano quanto è lontana la soluzione al problema delle banche in crisi.
Il primo articolo sostiene che il problema del salvataggio delle banche è quello di capitalizzarle e cambiare il CDA e il DG.
Il secondo (una intervista a Cofferati) propone una democratizzazione che, però, poi finisce nell'allargare la platea di coloro che devono decidere gli stipendi dei manager.
Io penso che la soluzione stia altrove. Le banche (tutte, non solo quelle in crisi) devono dotarsi di Progetti di Sviluppo (Business Plan) alti e forti. Per farlo devono dotarsi di metodologie e conoscenze di strategia d’impresa di cui oggi non dispongono. Sono le stesse conoscenze e metodologie che avrebbero potuto evitare il crescere abnorme delle sofferenze e, forse, evitato l’emergere della crisi. Infatti attraverso queste conoscenze e metodologie avrebbero potuto non solo scegliere meglio le imprese da finanziare. Ma supportare quelle non finanziabili a costruirsi progetti di Sviluppo per tornare finanziabili.
La democratizzazione va bene, ma è necessario che arrivi a far partecipare stakeholder esterni ed interni alla definizione del Business Plan (progetto di Sviluppo della Banca).
Cosa c’entra la Banca dell’Etruria? C’entra perché un caso che dimostra quanto la soluzione (un Business Plan alto e forte) sia del tutto trascurata. Noi abbiamo sviluppato una Metodologia di Rating dei Business Plan che permette di capire quanto questi siano alti e forti. E la applichiamo alla Società degli indici FTSE MIB e Star di Borsa Italiana. Lo abbiamo applicato anche al Business Plan di Banca dell’Etruria: era ovvio che non era alto e forte. Noi non abbiamo analizzato la situazione dei bilanci, ma abbiamo concluso che, se fosse stata problematica, non sarebbe stata in nessun modo sanata attraverso la realizzazione di quel Business Plan. Abbiamo chiesto di presentare il nostro Rating al Vertice della Banca, ma siamo riusciti a incontrare solo due competenti e motivati Dirigenti che, però, potevano solo riferire.
Lo avranno certamente fatto. Certo il Vertice non ci ha dato alcun riscontro. E, altrettanto certamente, la situazione problematica non è stata riparata.




giovedì 19 febbraio 2015

Michele Ferrero e … cercansi banchiere imprenditore

di
Francesco Zanotti


Giovanni Ferrero nel suo articolo sul Sole di oggi riporta un brano di una lettera che suo padre Michele scrisse di dipendenti nel lontano 1957: “Mi impegno a dedicare ogni attività e tutti i miei intenti a questa azienda, assicurandovi che mi riterrò soddisfatto solo quando sarò riuscito, con fatti concreti a garantire a voi ed ai vostri figli un sicuro e sereno avvenire”.
Un banchiere potrebbe tranquillamente dire a tutte le imprese dei territori che presidia (visto anche la cura che hanno le banche a dimostrare il loro impegno sociale): “Mi impegno a dedicare ogni attività e tutto i miei intenti a questa banca, assicurandovi che mi riterrò soddisfatto solo quando sarò riuscito, con fatti concreti a garantire che tutte le imprese nostre clienti potranno avere un sicuro e sereno avvenire”.
Potrebbe tranquillamente dirlo perché vi sono nuove conoscenze e le metodologie per far sì che una banca non si limiti solo a giudicare (male. E’ scientificamente dimostrabile che lo fa male!) chi merita credito o no. Ma anche possa mobilitare (fornendo queste conoscenze e metodologie) la sua clientela perché sappia disegnare Progetti di Sviluppo (formalizzati in Business Plan) alti e forti. E possa seguirla nella realizzazione di questi Progetti.
Purtroppo nessun banchiere accetta di aver qualcosa da imparare. Ed allora si assiste ad un lento, ma inesorabile declino della nostra economia perché le imprese, da sole, non possono procurarsi le conoscenze e le metodologie che permettono loro di disegnare Business Plan alti e forti.
E le banche non solo non immaginano possibile aiutare le imprese con conoscenze e metodologie, ma non sanno neanche accorgersi quando una impresa ha intrapreso un cammino di declino strategico.
Oggi i banchieri fanno dichiarazioni di altro tipo: noi ci stiamo impegnando a trasformare ogni filiale, invece che in un luogo di conoscenza e consulenza, in un mercatino rionale che vende ogni tipo di “roba”. E quando qualcuno ci offre un salto di carriera e di stipendio, piantiamo baracca e burattini.
Banchiere imprenditore cercansi.


lunedì 16 febbraio 2015

Cercare competitività significa cercare di diventare istituzione

di
Francesco Zanotti


Le risorse cognitive di cui disponiamo sono il nostro patrimonio e il nostro limite.
Oggi la risorsa cognitiva che viene utilizzata universalmente è lo schema dell’analisi competitiva di M. Porter. Anche chi non lo conosce lo usa. Infatti, chi non pone la competitività come obiettivo? Ecco, il porsi la competitività come obiettivo significa usare lo schema di analisi di M. Porter. Non significa usare le leggi del mercato, ma le leggi ipotizzate da uno specifico modello teorico, quello di Porter appunto.
Ora vorrei fare vedere cosa significa usare come riferimento questo modello: si genera la crisi che stiamo vivendo.
Infatti, qual è il posizionamento competitivo che si è spinti a cercare dallo schema di M. Porter?
Quello in cui la forza dei concorrenti è la minore possibile. Quello in cui i concorrenti potenziali sono inesistenti, così come le tecnologie alternative a quelle che l’impresa sa usare. Quello in cui il potere negoziale dei clienti e dei fornitori è il più basso possibile.
Ma un posizionamento di questo tipo è molto simile a quello di una istituzione. Cercare un posizionamento competitivo ottimo significa, allora, ambire a diventare una istituzione.
Ma il cercare di diventare un’istituzione significa rinunciare completamente alla imprenditorialità. Cioè a quel fare impresa che è costruire nuovi mondi: nuove antropologie prima di nuove funzionalità dei prodotti.
Cercare di diventare una istituzione significa cercare di conservare il mondo attuale, proprio oggi quando il mondo attuale (i sistemi economici, in particolare) sta perdendo di senso e di funzionalità. E conservare un mondo che sta perdendo di senso è la causa profonda della crisi che stiamo vivendo.
Certo la crisi non è solo colpa esclusiva dello schema di Porter, ma una bella parte di colpa ce l’ha!
Altre risorse cognitive stanno impedendo la strada alla costruzione di una nuova stagione di imprenditorialità. Ne parleremo.



sabato 14 febbraio 2015

Le banche: speriamo che me la cavo.

di
Francesco Zanotti


Stamattina ho letto Su Plus24 del Sole24Ore una analisi del sistema bancario che rivela quanto manchino strumenti per capire cosa ci sta accadendo. Non cito l’Autore perché non è colpa sua. Non tocca a un giornalista trovare strumenti si analisi migliori.
Cosa riporta la sua analisi? Innanzitutto i dati sulle cedole che, forse, verranno distribuite agli azionisti. E va beh: abbiamo migliorato un po’. Ma ovviamente non si dice che cosa ha generato questo aumento. Che cosa si dice poi? Si riportano le opinioni ottimistiche (alcune molto ottimistiche) dei CEO di alcune importanti banche. E, poi? E poi basta! Non una parola su quello che dovrebbe essere lo strumento fondamentale di analisi e di giudizio: la qualità dei Business Plan della banche.
Alla fine l’autore rivela quale è l’attesa di tutti, il fattore senza il quale le previsioni ottimistiche si vanno a far benedire: la ripresa. Se non ci sarà la ripresa saranno guai.
Ma, lo diciamo spesso e lo diciamo anche ora: cari banchieri, guardate che la ripresa non viene dal cielo. La ripresa economica è la somma della ripresa della capacità di generare cassa delle imprese. E questa dipende dalla qualità dei progetti di futuro (dei Business Plan) di queste imprese. Ora voi, care banche, avete un ruolo storico nel generare la ripresa, non nell'attenderla: dovere insegnare alle imprese a sviluppare Business Plan alti e forti. E dovere imparare a valutare quanto davvero siano alti e forti. Per fare questo dovete disporre delle conoscenze e delle metodologie di progettazione e di analisi strategica che non avete in nessun modo.
Ci sarà, allora la ripresa dell’economia e delle banche se queste si doteranno di conoscenze e metodologia di analisi e progettazione strategica che non hanno.
Altrimenti … Ecco, attendiamo la ripresa. Che è un strategia del tipo “Speriamo che me la cavo”!


lunedì 9 febbraio 2015

HP... che tristezza!

di
Luciano Martinoli


Nell'agosto del 1983 fui assunto, giovane neo laureato, in un'azienda, semisconosiuta ai più, dal nome complicato e di difficile pronuncia per gli italiani: Hewlett-Packard.
Due giovani ingegneri elettronici, Bill Hewlett e Dave Packard, l'avevano fondata meno di una quarantina di anni prima.
Nel decennio in cui vi lavorai ebbi modo di assistere, e localmente di contribuire, al successo economico e di mercato dell'azienda. Ricordo che uno dei vanti era mostrare ai clienti la percentuale del fatturato in base all'anno di introduzione dei prodotti venduti: oltre il 90% era costantemente fatto con prodotti introdotti non più tardi di un paio di anni prima.

L'azienda infatti aveva la capacità di creare continua innovazione: nella strumentazione elettronica come in quella medicale e analitica, nei computer come nelle stampanti, scompaginando assetti di mercato consolidati a proprio vantaggio. Con tale innovazione i nuovi prodotti non solo consentivano di fare "meglio e a meno" ciò che si otteneva con quelli esistenti, ma il più delle volte creavano mercati totalmente nuovi. Mitica la "sfida", da me vissuta in prima linea, dei computer RISC-Unix in contrapposizione alle piattaforme mainframe IBM.
I risultati creavano una spettacolare produzione di cassa che si manifestava in imponenti e continuative spese in ricerca e sviluppo, importanti iniziative di marketing e comunicazione sul mercato e trattamenti da favola per i dipendenti. Questi ultimi, e lo posso testimoniare "dall'interno", si sentivano attori protagonisti di questi successi, non semplici esecutori di volontà altrui. L'impegno era costante e di tutti, non si andava esclusivamente a "lavorare per lo stipendio" ma a far accadere qualcosa di importante, per se e per gli altri. Entrare in un ufficio alle 19,30 era lo stesso che farlo alle 11 di mattina: c'erano ancora tutti e tutti contenti di darci dentro.

Andai via qualche anno prima della morte dei due fondatori, con Lew Platt ultimo CEO da loro scelto. Dopo di lui l'azienda fu spacchettata e arrivarono i "manager professionisti", dove la loro professionalità si capì, da lì a poco, in cosa consisteva.

giovedì 5 febbraio 2015

Proposta di dibattito - CRS: una rivoluzione necessaria, una rivoluzione non iniziata

Primo contributo

intervista 
Sebastiano Renna
CSR Manager di SEA

Premessa: sull'orlo del domani di Francesco Zanotti

Oggi viviamo in una società che deve diventare radicalmente diversa. Diversa nei modi di produrre ricchezza, nel modo di intendere la qualità della vita, nel modo di fare politica e costruire socialità. Nella visione del mondo soprattutto!
Chi progetta e costruisce una nuova società?
Essa non nasce per progetto divino o, spontaneamente, grazie allo svilupparsi caotico e casuale di processi emergenti. Essa nasce dall'azione comune e solidale di tutti gli attori che, appunto, costituiscono la società.
In particolare una nuova società nasce dall'azione delle imprese: esse creano nuovi prodotti e nuovi sistemi di servizi che sono concretizzazioni tangibili di un nuovo modo di vivere. Intorno a loro gli altri attori sociali creano le condizioni perché l’impresa possa svolgere il proprio ruolo di creazione del futuro. E completano questa creazione generando lo Stato ed esplicitando la visione del mondo che questo nuovo modo di vivere rappresenta. Se mi si permette di dire le cose in modo diverso, una società nasce per una diffusa e solidale imprenditorialità economica, sociale, politica, istituzionale e culturale. Nasce quasi dal fare arte sociale insieme.
Se si vogliono dire le cose in modo più scientifico, una nuova società nasce da un processo di creazione sociale.
Solo un breve esempio: il formarsi della nuova società italiana nel dopoguerra.
Essa è nata, appunto, da una diffusa e solidale imprenditorialità economica, sociale, politica, istituzionale e culturale, stimolata dal desiderio diffuso ed intenso di abbandonare una società passata che aveva costruito macerie e di costruirne una nuova dove la parola valorialmente più intensa era “benessere”. Detto più semplicemente: tutti si sono rimboccati le maniche e le idee per vivere meglio.
Allora se è vero che è necessario costruire una nuova società, che questa costruzione è solo e soltanto sociale, cioè con la partecipazione attiva di tutti, e che le imprese sono gli attori sociali che possono/devono guidare questo processo, allora responsabilità sociale significa una cosa molto precisa.
Significa, da un lato, che le imprese hanno il dovere sociale di far evolvere la loro identità proponendo nuovi sistemi d’offerta che rappresentano un ologramma della nuova società. E, dall'altro, significa che la progettazione di questo sistema d’offerta può essere fatto solo in stretta sinergia con un sociale che è la vera fonte di innovazione e consenso.
Voglio dire che una impresa non si può rifiutare di diventare protagonista del sociale non solo perché non sarebbe etico farlo, ma perché non è possibile fare in altro modo se vuole perseguire davvero l’aumento del valore per gli azionisti!
Detto diversamente, l’obiettivo etico e l’obiettivo del valore per gli azionisti non sono contrapposti, non è necessario mediare tra di loro, ma sono profondamente sinergici. Insistiamo: oggi il valore per gli azionisti è creato solo da profonde innovazioni imprenditoriali e queste non possono che nascere da una alleanza profonda con il sociale.
Se tutto questo è vero, allora, pensando alla CSR emergono spontaneamente alcune domande chiave.
Intendiamo porle ad alcuni CSR manager, considerati leader per esperienza e conoscenza, e provocare un dibattito sul senso e sul ruolo della CSR nello sviluppo di una nuova generazione di imprese che sentono la responsabilità di costruire una nuova società.
La prima persona a cui abbiamo pensato è Sebastiano Renna, CSR Manager di SEA e, indiscutibilmente, da annoverare tra i protagonisti riconosciuti dell’evoluzione della CSR.
Le sue risposte sono una vera e propria proposta di “manifesto” per costruire una rivoluzione nella teoria e nella pratica della CSR.
Ringrazio il Dott. Renna per la sua disponibilità e il suo contributo che, siamo certi, non rimarrà senza risposta.
Intervista a Sebastiano Renna

D: Perché la CSR è strategica?
Tutti affermano che la CSR è “strategica”. Come si declina questa strategicità? Si dice che la CSR è un fattore di competitività. Ma, oramai, il paradigma della competizione è stato giudicato inadeguato dagli esperti di strategia, almeno dai primi anni 2000. Oggi viene criticato ferocemente anche dalle riviste di opinione (es. Forbes). E l’obiettivo di acquisire un vantaggio competitivo sostenibile viene giudicato sempre più irrealizzabile. Allora il proporre la CSR come fattore di competitività rischia di essere solo una modalità retorica per dire che la CSR è importante e chi la pratica ha diritto a stare “alla destra del Grande Capo”.

R: Sebastiano Renna
Non bisogna fare ricorso a sofisticati ragionamenti o sottili argomentazioni per dimostrare che la CSR è tutt’altro che strategica nel sistema economico corrente. E’ piuttosto la foglia di fico di un modello manageriale svuotato di senso e inadatto ad offrire metodi di lavoro adeguati alle complessità dei nostri tempi. Potremmo forse dire che “la CSR dovrebbe essere strategica”, nel senso che dovrebbe guidare i manager nella riformulazione della loro visione del business e, di conseguenza, del modo in cui prendono le relative decisioni. Ma anche in questo caso si tratta più di un mantra di cui si riempiono la bocca accademici e consulenti desiderosi di ritagliarsi un ruolo di lucrosa visibilità presso le aziende, che di una reale convinzione perseguita con coerenza e nei fatti. Perché allora tutti parlano di CSR strategica? Perché fa comodo.
Dopo una prima fase, negli anni ’90 e all'inizio del secolo, in cui la CSR era apertamente praticata come un più evoluto strumento di corporate image e di public affairs, è subentrata una “revisione critica”, resasi necessaria per correggere le contraddizioni più laceranti, che vedevano multinazionali e grandi aziende continuare a perpetrare bellamente indebite “estrazioni di valore” dagli stakeholder (inquinamento, distorsioni della concorrenza, frodi e inganni verso i consumatori, atteggiamento predatorio verso i fornitori, elusioni fiscali, riduzioni ingiustificate degli organici, ecc.) dietro il paravento delle sponsorizzazioni e delle liberalità.
La crisi dei subprime del 2008 ha smorzato gli eccessi, ridotto i budget a disposizione dei CSR manager, spinto il grande baraccone della business ethics a cercare un nuovo e più credibile assetto, dopo che era emerso come i più munifici donors e sostenitori di buone cause erano anche coloro che avevano le maggiori responsabilità nell’affaire dei derivati. Venne quindi tenuto a battesimo il nuovo slogan: “non lo fo per piacere a Dio ma per interesse mio”.
Le major della consulenza (McKinsey, BCG, Accenture, Pwc, Kpmg) e dell’accademia (Harvard, MIT, Bocconi) inondano il settore di report, paper, indagini, analisi la cui architrave concettuale è che la CSR migliora la competitività ed è funzionale alla creazione di valore. I CSR manager restano affascinati da questo “new deal” ed eleggono a loro testi sacri di riferimento due studi harvardiani: “Strategy & Society” di Porter e Kramer del 2006 e “The Impact of a Corporate Culture of Sustainability on Corporate Behavior and Performance” di Eccles, Ioannou e Serafeim del 2012. Ed è tutto un fiorire di schemi, modelli e case histories pronti alluso per coloro che vogliono lasciar intendere al mondo che sono partiti lancia in resta alla conquista dei mercati con l’armatura della CSR. In realtà tutta questa ponderosa letteratura non riesce a dimostrare niente, se non che in alcuni casi è riscontrabile una correlazione tra adozione di strumenti di CSR e performances di borsa superiori alla media, ma resta il dubbio che tale correlazione vada letta in senso contrario a come viene spacciata: sono forse le aziende che ottengono migliori risultati a mettere in campo un più ampio armamentario di CSR, non viceversa. La verità è che la CSR ha certamente contribuito alla crescita di fatturati e margini, ma soprattutto di coloro che su questa tesi ben confezionata ci hanno costruito sopra ricche consulenze. Oggi, ad esempio, il trend topic degli addetti ai lavori è costituito dal bilancio integrato. Tutti da anni affannati a ricercare la formula magica per la “unique bottom line”, ma quello che sinora si vede è nulla più che un espediente editoriale che rilega nello stesso volume le pagine del bilancio d’esercizio e quelle del bilancio di sostenibilità. Il problema è che non puoi rifare daccapo un edificio partendo dal tetto, ovvero dalla rendicontazione. Raffinare le tecnicalità per raccontare in che modo il tuo processo di generazione del valore economico abbia beneficiato dell’apporto di determinate decisioni “CSR-oriented” non è possibile senza aver definito a monte il modello di business che incorpora questa filosofia, i pilastri strategici che la sorreggono e i driver del valore che vanno monitorati per verificarne i risultati nel medio-lungo periodo. Ci sono ancora molte incrostazioni di pensiero meccanicistico nell'approccio alla CSR. Si dedica la massima concentrazione e la fetta principale delle risorse per mettere a punto la cassetta degli attrezzi, nell'illusione che l’agognato salto di qualità verso la CSR strategica sia un fatto di perfezionamento delle tecnicalità piuttosto che di ripensamento radicale dei piani industriali.

La verità è che rendere la CSR realmente strategica per una azienda è un lavoro drammaticamente lungo e complesso. Non procede per linea retta ed è caratterizzato da frequenti stop & go. E’ un processo tanto più vischioso quanto più si addentra nel cuore del decision making manageriale, chiedendo all’azienda di investire parte delle proprie risorse e del tempo dei suoi manager in attività che sembrano spesso spingerla in direzione contraria rispetto alle sue intuitive esigenze primarie: invece di accorciare, allungano l’iter delle decisioni; invece di semplificare, articolano ulteriormente il set di variabili da considerare e monitorare; invece di mettere a portata di mano celermente qualche soluzione aggiuntiva, estendono la lista delle problematiche di cui occuparsi. Se la CSR non fa questo non è realmente un processo strategico. Per questo sono davvero poche le realtà che possono dire di averlo davvero avviato.

lunedì 2 febbraio 2015

Crisi risolte? Politica della progettualità?

di
Francesco Zanotti


Un articolo di Dario Di Vico su “Corriere Economia” tratta del tema delle crisi d’imprese risolte dalla “Task Force” denominata “Struttura crisi d’impresa” del MISE.
La domanda chiave che pone lo stesso Di Vico è: si tratta di soluzioni palliative o di rilanci definitivi?
Per rispondere alla domanda occorrerebbe dare una occhiata ai Business Plan che descrivono il progetto di rilancio. Ma di Business Plan non si parla né nel testo di Di Vico, né nelle interviste dei due esperti: uno che esprime un giudizio favorevole ed uno un giudizio dubbio.

Esiste, però, una indicazione preziosa nelle parole di Claudio De Vincenti: “In molti casi il confronto con governo e sindacati consente di scoprire opportunità che l’imprenditore non aveva individuato da solo.”
A mio avviso queste parole possono essere l’embrione di una possibile politica industriale: il salvataggio delle imprese passa da una rivoluzione delle loro identità strategica. E il ruolo del Governo è quello di guidare il processo di progettazione che porta a questa ridefinizione strategica.”.
Se davvero fosse questa la politica intrapresa dal Governo sarebbe una scelta lungimirante.

Sorgono, però, alcun domande.
La prima riguarda le risorse cognitive.
Gli attori di ogni attività progettuale utilizzano per svolgere questo compito le risorse cognitive di cui dispongono. Per riprogettare l’identità strategica delle imprese servono conoscenze e metodologie di strategia d’impresa. Quali sono quelle che il Governo mette a disposizione dei suoi funzionari e dei sindacati che, ovviamente, non possono disporre autonomamente delle conoscenze e delle metodologie di strategia d’impresa più avanzate?
La seconda riguarda il processo di progettazione: quali sono le metodologie progettuali che il Governo utilizza?
La terza riguarda il modello di Business Plan che è il documento che  sintetizza il risultato del lavoro progettuale: quale modello di Business Plan viene utilizzato? Tiene conto dello stato dell’arte internazionale delle conoscenze e della metodologie di strategia d’impresa?
La quarta riguarda l’importanza di un giudizio “terzo”. E’ disponibile il Governo a fare valutare la qualità dei Business Plan sviluppati usando avanzate metodologie di Rating dei Business Plan?
Secondo il mio modesto avviso, senza la risposta a queste domande è impossibile un giudizio sulla efficacia dei processi di salvataggio realizzati.  
Solo dalle risposte a queste domande si può capire se realmente il Governo ha in mente una nuova politica industriale che non sarebbe né dei settori, né dei fattori, ma della progettualità.