"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

sabato 18 luglio 2015

Il Rapporto Impresa-Giustizia (...e Impresa-Finanza, Impresa-Sociale,ecc.)

(Lettera Aperta al Presidente di Confindustria)
di
Luciano Martinoli

Egregio Presidente
Ho letto con molto interesse la sua lettera pubblicata sul Corsera del 17 luglio scorso. Mi consenta, a partire dal commento di alcune sue affermazioni, di presentarle una prospettiva diversa, e forse proprio per questo più "utile", per affrontare il tema della sua: il rapporto dell'impresa con la giustizia e, se posso azzardare una generalizzazione, con il sistema degli stakeholder in generale.
Sono perfettamente d'accordo con lei riguardo "la stretta interconnessione che c'è tra le esigenze dell'economia, le regole che la governano e la modalità di azione della giustizia", ma questa interconnessione, è bene ricordarlo, vede l'economia in posizione prevalente. Infatti non c'è mai stato uno sviluppo economico sancito da norme giuridiche; al massimo queste possono averlo favorito, una volta che esista già, o inibito, certamente non creato. E a proposito delle "regole dell'economia" esse sono solo la ricostruzione ex-post, con buona pace degli economisti, dei comportamenti degli attori principali dell'economia stessa come si è venuta a sviluppare nel mondo occidentale, ovvero le aziende. 
Dunque sono le aziende che, con la loro azione nel contesto della società civile (azione che non è solo economica ma influenza anche la sfera finanziaria, sociale, politica, giuridica, mediatica, culturale e ambientale), determinano la "forma" del mondo che le circonda, non il viceversa. Lo sanno bene gli imprenditori che "creano" i mercati (nuovi "mondi" di significato, come nel caso della sua MAPEI).

Se tutto ciò è plausibile ecco che si apre una prospettiva profondamente diversa da quella della consueta narrazione del rapporto impresa-giustizia (ma anche impresa-finanza, impresa-ambiente, impresa-sociale, ecc.), una prospettiva di maggiore responsabilità per le aziende: sono loro le attrici dell'evoluzione di quel "contesto esterno" che poi influenza gli altri ambiti della società.

Allora non siamo in presenza di una "impermeabilità alle istanze di sviluppo" da parte degli stakeholder, giustizia compresa, nei confronti dell'impresa ma, al contrario, di un vuoto e una incapacità di formularne di nuove da parte dell'impresa stessa. 
Dunque crisi di modelli di sviluppo che nessuno sta affrontando.
A titolo di esempio, una dimostrazione dell'incapacità di fornire tali modelli, attraverso una proposta di "Nuova Italia", viene da chi tali proposte è nella posizione di avanzarle: le aziende dell'indice FTSE MIB e STAR di Borsa Italiana. Esse infatti rappresentano, con il loro fatturato aggregato, una consistente fetta del PIL nazionale e danno lavoro a più di due milioni di persone. Ebbene dal nostro recente rapporto, giunto alla quarta edizione, sul "Rating" dei loro Business Plan emerge un panorama sconfortante: una rassegna di progetti di conservazione, laddove presenti, a testimoniare una concezione di impresa burocratica, non certo di sviluppo, sullo sfondo di una convinzione di "mondo" statico o che cambia in modo indipendente dall'azione dell'impresa.

Per altre aziende le dichiarazioni di intenti futuri, (perchè è questo ciò che contiene un Business Plan) non vanno certo meglio. Aziende più piccole, o quotate in borsa ma non in quegli indici oggetti del nostro rapporto, o non presentano tali documenti (Fincantieri), o ne ignorano addirittura l'esistenza e dunque la necessità. 
Come possono gli stakeholder supportare il nuovo mondo che le aziende vogliono costruire se questo non viene descritto anzi, meglio ancora, se le imprese li mobilitano per progettarlo? 
Ognuno si limiterà a vedere il suo spicchio di realtà e ad agire dentro di esso secondo le proprie regole: i giudici applicheranno le leggi (che altre "modalità di azione" potrebbero avere?), le banche baderanno alle loro regole, gli ambientalisti si mobiliteranno per difendere il territorio e... le aziende si lamenteranno della cultura contro l'impresa sorta per loro specifica incapacità progettuale.

Ecco allora che il suo appello a "lavorare insieme" è da interpretare in modo radicalmente innovativo: una progettualità "strategica", rappresentata nei Business Plan, che, di concerto con tutti gli stakeholder (giudici compresi), disegni mille nuovi mondi, compatibili con le esigenze di tutti; uno per ogni azienda. Così facendo essi si impegneranno a realizzarli e non ad ostacolarli.
E la responsabilità dell'esecuzione di questi progetti è degli imprenditori coraggiosi, capaci, e volenterosi.
Sto proponendo una novità troppo dirompente? A ben vedere sto solo richiamando al loro dovere di guida della società la classe imprenditoriale che mentre in passato ha costruito il mondo che oggi viviamo, oggi è appiattita nell'esercizio delle lamentele sul contesto invece di proporne un suo rinnovamento profondo (e non semplici riforme).  
Questo cambio di paradigma è possibile però non solo con buona volontà ma soprattutto dotandosi di “risorse cognitive” radicalmente nuove di cui la classe imprenditoriale ha disperato bisogno per tornare a fare il suo vero mestiere. Mi riferisco alle conoscenze ed alle metodologie di Strategia d'Impresa che sono, purtroppo, diffusamente sconosciute

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