"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

sabato 29 ottobre 2016

La riduzione dei costi è sempre dannosa

di
Francesco Zanotti

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Le ragioni sono molte. E’ un danno macroeconomico, è un danno organizzativo ed è, in sintesi, un dramma imprenditoriale.

E’ un danno macroeconomico perché quando qualcuno riduce i costi, parallelamente si riducono i ricavi di qualcun altro: fornitori e dipendenti che siano. In realtà si riducono anche i ricavi dei clienti. Mi si può obiettare che se i costi non sono sostenibili, sarà anche mors tua (di quelli a cui riduco i ricavi), ma almeno sarà vita mea …
Purtroppo no! Alla fine diventa morte di entrambi perché ad una riduzione di costi ne segue sempre un’altra fino allo spegnersi dell’impresa. Il sistema bancario insegna: si sta piano piano spegnendo di continua riduzione di costi.

E’ un dramma imprenditoriale perché grazie alla scappatoia strategica della riduzione dei costi, ci si rifiuta di pensare ad aumentare i ricavi. Aumentare i ricavi significa immaginare qualcosa di nuovo e questo richiede un cambiamento cognitivo da parte dei manager e degli imprenditori che non lo sanno fare e non trovano nessuno che li aiuti a farlo.

E’ un danno organizzativo non solo perché si generano conflitti e si crea un clima di paura quando si licenzia (chi saranno i prossimi) ma anche perché si disperdono risorse cognitive che potrebbero essere indispensabili e per progettare e realizzare qualcosa di nuovo.



mercoledì 26 ottobre 2016

L’autostrada del sole: una grande storia imprenditoriale.

di
Cesare Sacerdoti

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“Grandi opere, 21 arresti per corruzione sulla TAV” titola oggi Repubblica.
Eppure c’era un tempo in cui le grandi opere erano un motivo di orgoglio per il nostro Paese.
L’autostrada del Sole ne è l’esempio più eclatante: 750 km di autostrada in 8 anni; dal nulla.
La rilettura, oggi,  di quell’impresa, propone vari spunti di riflessione. Ne propongo alcuni
L’opera pubblica e il sogno
L’idea di una moderna rete di autostrade nasce da un’iniziativa del Governo, con la legge 463 del 21 maggio 1955, detta legge Romita, dal nome del Ministro dei Trasporti che l’aveva fortemente voluta. Anche allora non fu un’impresa facile: Pinto, nel suo libro La strada dritta, ricorda che furono “sei mesi di scontri e battaglie parlamentari con i partiti di sinistra furibondi per aver portato via risorse a ferrovie e strade nazionali, accusando il governo di essere lacchè della Fiat: quelle auto, diceva la stampa, erano la vera ragione del piano”. Anche all’interno della maggioranza ci furono contrasti: “una delegazione democristiana li rimprovera di non aver dato la precedenza alla ricostruzione delle chiese”.
Non c’erano riferimenti validi: in Europa solo la Germania aveva realizzato delle autostrade, ma con lo scopo di trasportare rapidamente le proprie truppe. “Il progetto italiano nasceva da tutt’altre necessità. L’autostrada era pensata per le famiglie, che si muovevano con piccole utilitarie e per gli autotreni con rimorchio”. L’unico riferimento erano gli Stati Uniti, da cui Autostrade prese spunti (p.e. il concetto degli svincoli come sistema di rallentamento del traffico in uscita, oppure l’idea che “Non è l’autostrada che si avvicina il più possibile alle città, ma è la città che deve trovare il modo migliore per agganciarla senza provocare rallentamenti “).
Eppure si decise di fare da soli: “Debbono essere gli italiani a costruire la loro autostrada: serve a unire il loro Paese”.  La società Autostrade fu creata dal nulla con un esiguo capitale sociale. Il progetto dell’Autostrada che unisse l’Italia da Milano a Napoli era appena abbozzato e partiva da uno studio di fattibilità (solo del tratto padano) realizzato da “Fiat, Eni, Pirelli e Italcementi, regalato allo Stato perché spaventati dall’enormità dell’impresa”.
C’erano regole strette per fare le strade: Pinto narra che ANAS non riuscisse ad accettare una strada senza paracarri e senza marciapiedi.
Non c’erano soldi: il management dovette cercarli. Anche all’estero, da Lehman.
Non c’era neanche la certezza di una redditività immediata dell’opera: sempre ANAS sottolineava che al momento in Italia circolavano solo 1,8 milioni di auto (un italiano su 27 aveva l’auto).
Ma c’era una visione, un sogno. Un sogno che man mano che l’opera avanzava, coinvolgeva tutti. Sempre Pinto ricorda che la gente (gli ingegneri, le imprese, i lavoratori e i politici)  avesse acquistato fiducia nell’opera,  da quando ha cominciato a viaggiare sui tratti aperti e a risparmiare tempo. E perchè, come dice un personaggio del romanzo di Pinto, con essa “arriva la modernità”. Anche in un bel documentario di Raistoria, viene mostrata la contadina contenta della costruzione dell’autostrada perché ne vede vantaggi per la sua attività. E le città? “tutti i centri italiani sembravano presi dalla smania di essere toccati dall’autostrada” e “Siena e Perugia si erano date battaglia, schierando ciascuna convegni, esperti, piazze piene di gente, pareri, pressioni e nomi importanti”.
Il contrario di quanto accade oggi per ogni opera pubblica

domenica 23 ottobre 2016

WhatsApp, Telegram, Banche e Infrastrutture: lo stesso problema

di
Francesco Zanotti

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Il problema è che tutti i top manager sono vittime di una autoreferenzialità non negligente, ma sistemica. Ora, anche se non è voluta (appunto: non è negligente), questa autoreferenzialità è dannosa per gli azionisti, i dipendenti e il sociale …

Il Corriere della Sera di oggi riporta la notizia che una società milanese (Inthecyber) ha scoperto buchi clamorosi nella sicurezza sia di WahtsApp che di Telegram. Del tipo: solo conoscendo il numero di telefono di una persona e con poche conoscenze tecniche è possibile spiare le sue conversazioni.
Paolo Lezzi, il capo di Inthecyber, ha informato sia WhatsApp che Telegram, convinto che i loro manager avrebbero fatto un salto sulla sedia. Ma WhatsApp si è detta non interessata perché, a suo dire, il problema è degli operatori di TLC. Telegram manco ha risposto.
Perché una reazione così poco comprensibile?
Perché i gruppi di top manager si isolano in sistemi di relazione troppo poveri che li assorbono completamente e ne definiscono le priorità … Ripeto questo concetto più esplicitamente, perché sia chiaro: è il sistema di relazione di una persona che ne seleziona priorità, convinzioni etc. Non la realtà. E quando un messaggio arriva da uno sconosciuto (nel senso che non fa parte del sistema di relazioni che si ritiene prioritario), cioè dalla realtà, non sono in grado di ascoltarlo. Anche se si tratta di una informazione vitale.

Il caso non isolato.  Anche le banche sono incomprensibili.
Hanno bisogno di nuove risorse perché il loro modello di Business non funziona più, ma non si curano di cambiarlo.  Non cercano, ad esempio, nuove metodologie di valutazione e di dialogo con le imprese visto che quelle che utilizzano oggi non servono. Non cercano nuove conoscenze da cui ricavare queste metodologie. Non ascoltano quando si dice loro che, usando queste nuove conoscenze e metodologie potrebbero diventare protagonisti di un nuovo rilancio del nostro sistema industriale aumentando anche la qualità e la quantità dell’occupazione.
Cercano, invece, nuovo capitale. Detto diversamente, invece di tappare i buchi del modello di business, cosicché il nuovo capitale sia usato fecondamente, cercano di averne così tanto da saturare la capacità di disperderlo nei buchi. Tanta acqua da “affogare” i buchi.
E non ascoltano non perché sono incompetenti, ma perché nel loro mondo non si parla di metodologie e di modelli di Business (se non retoricamente). Si parla invece di aumento di capitale, di obbligazioni da trasformare in azioni etc.  E i top manager di quello devono parlare, anche perché solo a parlare di quello sono stati formati. E solo perché sanno parlare di quello sono stati selezionati.

Anche le infrastrutture sono incomprensibili. Pensate all’autostrada del Sole: era un progetto di tutto il Paese. Emozionava, mobilitava e creava le condizioni per lo sviluppo del Paese.  Era l’infrastruttura di supporto allo sviluppo di un progetto Paese.

Pensate ora alla Brebemi che è costretta a farsi pubblicità perché è stata progettata senza disporre di un progetto di sviluppo del territorio a cui finalizzarsi. E, quindi, sembra che serva a poco. Pensate a tutte le altre infrastrutture (per l’energia elettrica e per il gas, i porti, gli inceneritori etc.) che stanno confrontandosi con una crescente opposizione sociale. Forse sarebbe il caso di rivedere il processo di progettualità strategica del nostro sistema di infrastrutture facendo del sociale il protagonista di questa progettualità strategica. E spingendo il sociale a costruire progetti di sviluppo dei territori ai quali finalizzare i progetti di sviluppo infrastrutturale. Invece il sociale è relegato sulla carta dei bilanci di sostenibilità. Senza pensare che il concetto di “sostenibilità” è un ossimoro per le società di infrastrutture che, per definizione, non sono sostenibili perché occupano i beni comuni. Al massimo si può sostenere che le modalità con le quali realizzano le infrastrutture sono “sostenibili”. Detto tutto questo, a noi sembra che, invece di “misurare” la sostenibilità delle Società di infrastrutture, occorrerebbe misurare quanto i loro Business Plan sono essere finalizzati al progetto di sviluppo del nostro sistema paese e dei suoi territori. Detto diversamente, sempre per maggiore chiarezza, invece di sostenibilità si dovrebbe parlare di una finalizzazione ad uno sviluppo che non dovrebbe essere sostenibile, ma etico ed estetico.

Anche in questo caso i top manager sembrano “in altre faccende affaccendati” non perché sono incompetenti, ma perché nel loro mondo non si parla di sviluppo e di sociale. Si parla invece di “valore per gli azionisti” (che pure è una cosa importante).  E, anche in questo caso, i top manager di quello devono parlare, anche perché solo a parlare di quello sono stati formati. E solo perché sanno parlare di quello sono stati selezionati.

Ma sarebbe il momento di cambiare …



martedì 18 ottobre 2016

Aumentare la produttività... aumentando gli stipendi! Il caso Walmart

di
Luciano Martinoli


Si parla tanto di aumento della produttività. Il gigante della distribuzione americano ha affrontato il problema alla radice e lo ha risolto nel più "irrituale" dei modi, secondo la borsa e gli economisti: aumentando gli stipendi.

Se i lavoratori sono pagati di più, gli viene offerta migliore formazione e possibilità di carriera, l'azienda diventa più profittevole o meno? 
E' la scommessa che ha fatto, e almeno fino a questo momento vinta, il gigante della distribuzione Walmart, come riporta un articolo del New York Times.
Una mossa tanto azzardata, secondo i canoni classici della gestione aziendale, quanto banale. Ma sopratutto la riscoperta che il principale asset aziendale, quello più reattivo agli "investimenti", continuano ad essere quelle persone che oggi invece sono il primo target per le ristrutturazioni, licenziamenti, pre-pensionamenti. 
Una bella lezione che viene proprio da uno dei colossi che aveva fatto della "spremitura" costi la sua principale strategia e i cui risultati alla lunga erano stati deludenti.
Una indicazione di una direzione che tante aziende nostrane (penso alle banche) dovrebbero considerare senza ideologie, sulla base di piani non preconfezionati e liberi da condizionamenti esterni (analisti, borsa, finanza, ecc.).
Se l'ha fatto Walmart (485 miliardi di dollari di fatturato nel 2015, opera in 50 paesi, impiega 2,2 milioni di persone in 11.562 negozi, quotata alla borsa di New York) perchè non lo possono fare altri?


domenica 16 ottobre 2016

La crisi di Twitter

di
Francesco Zanotti
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Nessuno sembra più interessato a comprare Twitter. Twitter sembra non farcela da solo. La domanda cruciale è: ma a cosa e a chi serve essere costretti a limitarsi a 140 caratteri?

Il Corriere della Sera di oggi riporta la notizia che tutti i pretendenti (da Google alla Disney) a Twitter si sono dileguati. Si è dileguato anche l’ultimo: “Sales force”.
Conseguenza: i valori delle azioni crollano e gli investitori devono evidenziare grosse perdite. Esse non potranno essere recuperate perché in futuro anche i “fondamentali” non funzioneranno: Twitter è sempre stato in perdita e non si capisce perché dovrebbe iniziare a guadagnare.
Non si capisce perché credo che nessuno sappia rispondere alla domanda fondamentale. A cosa serve un “social” il cui differenziale di prestazioni è che ti limita la possibilità di espressione a 140 caratteri?
In teoria potrebbe servire ad una comunicazione sintetica di discorsi complessi con link agli stessi.
Ma, almeno da noi in Italia, ha stimolato, giustificato, invece, una comunicazione solo “battutista” da parte di una classe dirigente che non ha pensieri complessi, ma solo voglia di stroncare l’avversario.

Mi si permetta una battuta: suggerirei a Twitter di far pagare ai battutisti ... Così la pianteranno. Forse non servirà a salvare Twitter dai guai economico-finanziari. Ma a salverà noi da battute stucchevoli (quando non volgari e indegne), sì!

venerdì 14 ottobre 2016

Le opportunità del dopo Brexit per Milano: l'avvicinamento di economia e finanza

di
Luciano Martinoli


E' stata da poco lanciata una iniziativa che propone di far diventare Milano la City dell'eurozona. Il programma, accessibile al sito di "Select Milano", è ambizioso (ospitare le attività di clearing in euro e la creazione di un distretto finanziario) così come pure "sfidanti" sono le attività promosse per rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione (abolizione Tobin Tax, ripensamento tassa sul capital gain, decreto sul rientro dei cervelli e altro).
Dunque un'attività a tutto campo che vede coinvolti stakeholder locali (comune di Milano, Regione Lombardia, Camera di Commercio, ecc.), nazionali (Ministeri, Parlamento) e internazionali (London stock Exchange, operatori della City). Un lavoro importante da effettuare con interlocutori internazionali e in modalità credibile che avrà ovviamente una notevole ricaduta per Milano e l'Italia in termini di sviluppo complessivo.
Il nostro auspicio è però anche un altro.
L'Italia è il secondo paese manifatturiero dell'Europa intera, zona euro e non. La finanza, da questa e l'altra parte dell'oceano, ha preso da tempo un deriva autoreferenziale che l'ha portata a sganciarsi dal sottostante economico dal quale pure dovrebbe alimentarsi. La crescita di Milano finanziaria, e lo spostamento di attività della finanza dal paese che l'industria non la fa più da decenni, potrebbe ricreare quei ponti interrotti che tanto danno stanno facendo sia all'uno (le periodiche bolle finanziarie) che all'altro settore (il debito di "ossigeno", capitali, per le attività economiche).
Da questo punto di vista sosteniamo il progetto nella speranza che possa realizzare i suoi obiettivi "challenging".




domenica 9 ottobre 2016

Parlar di "effetti" scambiandoli per "cause"

di
Luciano Martinoli


Il dibattito economico-finanziario è concentrato sulla discussione, e le possibili cure, di aspetti della "crisi" che o sono suoi effetti o non hanno nulla a che fare con le cause.

Il tema non è nuovo per queste pagine virtuali, lasciatemelo però affrontare  questa volta con una storiella. 
Ad un ingegnere, a cui l'immaginario collettivo attribuisce estremo senso pratico, a un matematico, teorico per eccellenza, e a un fisico, a metà strada tra i due, viene chiesto di sottoporsi ad un test di sopravvivenza: essere rinchiusi per due settimane in una stanza vuota contenente esclusivamente acqua in bottiglie di plastica e scatolette di tonno.

giovedì 6 ottobre 2016

Il significato del "luogo" per le produzioni di valore

di
Luciano Martinoli


Un importante anniversario ci ricorda l'importanza del profondo legame tra un territorio e i suoi prodotti facendo luce anche sul significato di "off" e "re" shoring.

Il 24 settembre 1716, ovvero trecento anni e qualche giorno fa, Cosimo III, penultimo granduca di Toscana, promulgava un provvedimento dal titolo Sopra la Dichiarazione de’ confini delle quattro regioni Chianti, Pomino, Carmignano e Valdarno Superiore che definiva con precisione gli ambiti territoriali entro i quali dovevano essere prodotti i vini per ottenere la denominazione corrispondente.
Si tratta a tutti gli effetti della prima Denominazione di Origine Controllata della storia. In terra italica, primi al mondo, si capì quale era l'importanza di una produzione, in questo caso quella vinicola, e il suo imprescindibile legame con il territorio (terra, aria, acqua, ma anche persone e cultura del luogo). 
Un prodotto d'eccellenza emerge dai territori ed è ad essi intimamente legato, ne diventa la bandiera.
Un prodotto qualsiasi, una semplice merce (commodity), lo può fare chiunque e può esser fatto da qualsiasi parte; è anonimo, senza valore particolare, oltre al prezzo, e non rappresenta nessuno e nulla.

Questo legame "strategico" col territorio è stato nel tempo capito da tutti gli imprenditori che hanno creato ricchezza per davvero. FIAT sta (stava!) per Fabbrica Italiana Automobili TORINO, Alfa per Anonima LOMBARDA fabbrica automobili, BMW Bayerische Motoren Werke (Fabbrica di motori BAVARESE) se vogliamo limitarci ad esempi del settore auto. Molti hanno addirittura legato il proprio nome all'azienda e il territorio, come fossero piante che hanno messo lì radici e caratterizzano quel posto. Sarebbe stato possibile immaginare Enzo Ferrari in un luogo diverso dalla sua Maranello?

Fare dunque prodotti che vanno al di là di una funzione, che ispirano significati profondi ed evocano bellezza, significa nutrirsi di quanto di meglio offre un luogo: "spuntano" da esso. E' questo anche il senso del fenomeno del "re-shoring", il ritorno in patria delle produzioni dai luoghi dove erano state delocalizzate: non una melanconica nostalgia ma la scoperta del valore che il luogo fornisce all'attività di business.

Vadano dunque all'estero le multinazionali, anche nazionali, produttrici di merci, dalla carta igienica alle bottiglie di plastica fino alle automobili buone giusto per spostare i nostri deretani da un luogo all'altro. Nella nostra penisola si "coltivano" bellezze che spuntano in ogni dove nel magnifico e fertilissimo territorio dello stivale. 
Lo sappiamo da trecento anni!

martedì 4 ottobre 2016

A quando un dibattito su come dovranno cambiare le banche?

di
Luciano Martinoli


Tutti invocano un cambiamento del modo di fare banca ma nessuno si espone per affrontare il tema. Perché i media su questo terreno, che è il loro, sono latitanti?

Sull'inserto Affari e Finanza de la Repubblica di ieri è apparso un bell'articolo di rassegna e sintesi dello stato attuale del nostro sistema bancario.
Già il titolo indica il sempre più evidente nodo da sciogliere "Aumentare i ricavi e ridurre i costi non è più sufficiente", ma è il finale che sottolinea l'urgenza della impellente sfida che le banche devono affrontare:

"...lasciare il ventesimo secolo ed entrare nel ventunesimo, cambiando molto, anzi quasi tutto, struttura, organizzazione, cultura. Il loro mestiere di raccogliere il denaro dei risparmiatori e investirlo con prudenza e intelligenza rimarrà quello di sempre... , il loro ruolo di favorire lo sviluppo economico resterà fondamentale. Ma il modo, quello lo dobbiamo ancora scoprire."

Chi è che deve "scoprire" questo "modo"?
Le banche, nei loro documenti programmatici (quei Business Plan che dovrebbero illustrare in modo specifico e articolato i "modi" di fare Business, e solo dopo i risultati che tali modi generano) laddove e allorquando lo rendono pubblico, spacciano piccoli aggiustamenti come cambiamenti epocali. Al loro interno i manager cercano il consenso degli analisti. Gli analisti, in assenza di proposte da chi conosce il mestiere (i banchieri), si limitano a suggerire l'ovvio (smaltimento NPL, riduzione costi, aumentare ricavi). Gli azionisti, interessati solo al loro ritorno a breve, sono incapaci di esprimere una coraggiosa classe di manager imprenditoriali. I regolatori si limitano a tiepide raccomandazioni o a rendere irta di ostacoli le strade che non dovrebbero essere più percorse. La politica è preoccupata, come sempre, solo del sempre più precario equilibrio tra l'interventismo e i sui costi e come venga percepito in termini di consenso. 
E i media?

Il loro mestiere dovrebbe esser quello di far emergere quel "modo", inaugurando una stagione di dibattito sull'argomento e sollecitando le parti affinché prendano la responsabilità delle loro affermazioni così come dei loro silenzi, esprimendo giudizi sia sul primo atteggiamento che sul secondo. Ad oggi invece la narrazione si è concentrata prevalentemente sui tecnicismi per trovare rimedio ai danni provocati dal vecchio modo di fare banca, non per parlare del nuovo modo e, in assenza, è evidente che tali danni si riproporranno. Il risultato è che tutti si sono convinti che, essendo questo il tema all'ordine del giorno (perché sono i media che dettano l'agenda), basta affrontarlo e risolverlo che tutto volgerà di nuovo al meglio.

Auspichiamo allora che qualche testata e giornalisti "coraggiosi" raccolgano questo appello. Nel caso avvenga osiamo alzare prontamente la mano per sottoporre una prima proposta, che parte da un punto di vista nuovo (e che potrebbe costituire la scaletta del dibattito). Siamo sicuri che altre mani si alzeranno dando un contributo decisivo a individuare il "modo di fare banca" del nuovo secolo.

lunedì 3 ottobre 2016

Morto Caprotti, non se ne fa un altro

di
Luciano Martinoli


E' deceduto, a quasi 91 anni, il fondatore di Esselunga. Un grande imprenditore di altri tempi, insostituibile proprio perchè quei tempi non ci sono più. Da qui la necessità di progettare impresa in modo diverso.

La scomparsa dell'inventore di Esselunga, oltre al deferente omaggio per l'uomo e le sue capacità imprenditoriali, spinge ad alcune considerazioni "strategiche" sulle motivazioni del successo della sua attività. Era ovviamente dotato di grandi capacità, ma un tratto lo rende simile ad altri importanti imprenditori del nostro dopoguerra. Lo descrive bene un articolo del sole24ore del primo ottobre scorso in sua memoria:

"Decisivo nella sua formazione il lungo soggiorno negli Stati Uniti."

Lui, come tanti altri in Italia e in Europa, ripropose nel nostro continente quell' "American Way of Life" che era il contesto di società di riferimento che tutti conoscevano e a cui tutti tendevano. Uno "sfondo" comune al quale bisognava "solo" aggiungere, e da qui le grandi capacità di Caprotti e di quelli come lui, il gusto e il senso complessivo del prodotto/servizio che fosse comprensibile agli italiani.
E' possibile oggi fare lo stesso?
Temo di no. I guai di oltre oceano sono noti a tutti, l'America non è più quella terra promessa a cui tendere, lo sfondo comune non c'è più. Ciò non significa però che non è più possibile far nulla, anzi. Proprio per  l'assenza di un modello dominante ogni singolo imprenditore può lavorare per costruire e far emergere quel che piace a lui, a patto però che ne sia consapevole, che riconosca che questa attività di costruzione di contesto sia una necessità e una "impresa" prima sociale e solo dopo economica.
Ma sopratutto che accetti l'urgenza di progettarla in modo esplicito e condiviso.
Morto Caprotti non se ne può fare un altro, il mondo, e il modo, con il quale ha costruito il suo impero non c'è più. 
Ve ne sono però potenzialmente molti altri.