"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

mercoledì 30 novembre 2016

Lezioni di "Strategia d'Impresa" da Leonardo Del Vecchio

di
Luciano Martinoli


In una recente intervista apparsa sul Corsera, Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica, sottolinea, in modo implicito, l'importanza della Strategia d'Impresa per lo sviluppo dell'azienda in contrapposizione alla mera gestione operativa.

E' lucido e preciso, come tutti gli imprenditori, Leonardo Del Vecchio nel rispondere ai luoghi comuni che purtroppo affliggono il dibattito mediatico sulle imprese. Nell'intervista pubblicata dal Corsera lo scorso 22 novembre fornisce delle vere e proprie perle di Strategia d'Impresa. Forse sono sfuggite ad una lettura superficiale o frettolosa e desidero riproporle mettendole in corrispondenza del nostro modello di Business Plan, che ricordo essere frutto di un nostro studio sullo stato dell'arte mondiale della Strategia d'Impresa, e di come contenga ed espliciti proprio i contenuti e le esigenze di cui parla Del Vecchio (e molto altro).

sabato 26 novembre 2016

Lo strano caso della fusione tra Banco Popolare e Banca Popolare di Milano

di
Francesco Zanotti

Risultati immagini per fusione tra Banco Popolare e Banca Popolare di Milano

Un articolo del Sole24Ore di documentata perplessità sulle modalità con le quali è tata condotta l’operazione, comunicato stampa il giorno dopo che smentiscono quasi nulla e che il Sole24Ore riprende quasi smentendo se stesso … Allora diamo una occhiata al Business Plan della fusione … e scopriamo che  …

L’articolo è di Claudio Gatti ed è stato pubblicato il 23 novembre.
Le perplessità sono tante ed emergono sia dall’esame dei documenti societari sia dalle dichiarazioni di alcuni Consigliere di Amministrazione. I comunicati stampa non rispondono punto per punto.
Ma non voglio prendere parte alla diatriba (anche se mi sembrano difficilmente contestabili le perplessità di Claudio Gatti), ma voglio proporre uno sguardo strategico alla fusione: prendiamo il Business Plan e diamogli una occhiata. Se fosse un Business Plan alto e forte, le perplessità verrebbero ridimensionate: va beh, sì, quale problema c’è stato, ma alla fine stiamo iniziando una storia di successo.
E invece …

Quello che dovrebbe contenere un Business Plan per giustificare i risultati che espone.
Abbiamo preso come riferimento l’indice (le cose che deve contenere) di Business Plan che si ricava dalle conoscenze e dalle metodologie di strategia d’impresa più avanzate.

In un periodo di rilevante e veloce evoluzione, un Business Plan deve essere strutturato su di una chiara descrizione di come sia oggi l’impresa per poter descrivere esattamente il domani che si intende costruire e giustificare le previsioni patrimoniali economiche e finanziarie.
La descrizione dell’oggi deve essere tanto più precisa quanto più il domani se ne deve differenziare. Infatti, se non si sa cosa sia l’oggi non si riesce a capire se la descrizione del domani ne sarà diversa o meno.
Nel caso della banche tutti riconoscono che è necessario un cambiamento rilevante, quindi la descrizione dell’oggi deve essere quanto più precisa possibile, altrimenti non si riesce né a progettare, né a valutare il tipo di cambiamento proposto dalla singola banca.

Quali sono le “variabili” che descrivo l’oggi di una impresa?
Sono sostanzialmente due.
La prima è costituita dalla descrizione delle Business Unit. Se si vuole usare una espressione meno tecnica e più popolare si può parlare di modello di Business.
La seconda è costruita dal posizionamento strategico di queste unità di business.
E’ solo il posizionamento strategico che permette di prevedere quali saranno le performances patrimoniali, economiche e finanziarie se l’impresa non mette in atto cambiamenti e  individuare la necessità di costruire un domani diverso dall’oggi.
Per costruire il posizionamento strategico è necessario, partendo dalla definizione delle unità di business, descrivere l’industry associata ad ognuna di esse e di quell’industry determinare l’attrattività e le il posizionamento competitivo di ogni industry al suo interno.

Partendo dalla valutazione del posizionamento strategico si può decidere se e come cambiarlo. Il progetto di cambiamento deve specificare il cambiamento nella definizione del business e il conseguente nuovo posizionamento strategico, attraverso descrizione delle nuove industry di riferimento,  la loro attrattività e il posizionamento competitivo in esse.
Del nuovo posizionamento strategico occorre definire il “senso” attraverso mission, visione e intangibili. E dichiarare i fondamenti della propria progettualità strategica: il patrimonio di risorse cognitive utilizzate in essa.
Solo conoscendo il posizionamento strategico perseguito sarà possibile fare una previsione sulle performances patrimoniali, economiche e finanziarie.

Il Business Plan della fusione tra BPM e Banco Popolare non contiene quasi nulla.
Abbiamo analizzato il Business Plan in oggetto ed ecco una sintesi del nostro giudizio.
Sembra il Business Plan di una istituzione che non si perita di dire cosa fa perché lo dà per scontato. Tanto pensa che non debba cambiare il mestiere del fare banca.  Questo è ovviamente stridente con la convinzione prevalente, sostenuta anche dagli organi di controllo, che il futuro delle banche dipenderà sostanzialmente dal cambiamento dei modelli di Business.
Ci si limita a qualche generale indicazione su come si intende fare meglio i mestieri di sempre. In maggiore dettaglio, si parla di un aumento dell’efficienza organizzativa e se ne immaginano i benefici sul conto economico “in astratto”, cioè, ad esempio, senza alcuna considerazione delle reazioni dei concorrenti.
Si considera sostanzialmente noto e costante l’ambiente in cui opera per cui non ci si sente in dovere di proporre una sua visione dei cambiamenti che stanno accadendo nell’economia e nella società, visto che non ne propone una sua visione. Le previsioni (gli obiettivi da raggiungere) riguardano sostanzialmente il patrimonio. Ma si giudica che le operazioni sul patrimonio non derivino dal mestiere del fare banca. Intendiamo dire che non sono collegati in alcun modo alla redditività Detto in modo ancora diverso, non si pensa che sia possibile incrementare il patrimonio grazie alla redditività.

Conclusione: speriamo che investitori e risparmiatori leggano questo post per decidere con consapevolezza.




giovedì 17 novembre 2016

I "Perdenti della tecnologia", un'altra vista

di
Luciano Martinoli


E se la causa del malessere del mondo occidentale, che sta portando all'emergere dei populismi, fosse invece dovuta alla sempre maggiore insoddisfazione verso il modello industriale, arrivato alla versione 4.0?

Sul sole24ore del 16 novembre è stato pubblicato un editoriale del prof. Toniolo della Luiss a commento delle motivazioni di voto che hanno portato Trump a vincere le recenti elezioni presidenziali USA. La tesi è che il suo successo sia giunto grazie a "l’onda della frustrazione di milioni di cittadini dell’ “America di mezzo” che soffrono la precarietà e la dequalificazione dei propri posti di lavoro" e che "la globalizzazione è vista, sia dagli elettori sia da molti analisti, come la causa, di questo degrado". 
Il prof. Toniolo ritiene, giustamente, che questa sia solo una parte del problema, l'altra è la "tecnologia tipica della quarta rivoluzione industriale che caratterizza la nostra epoca, quella dell’informazione, della comunicazione, del big data, dell’automazione, dell’intelligenza artificiale" che sta "polarizzando l’occupazione sui due segmenti estremi: da un lato quello ad altissima qualificazione, ben remunerato sia economicamente sia con la soddisfazione e il prestigio sociale, e all’altro estremo le mansioni manuali più umili, dequalificate, sottopagate".
Si passa poi ad una breve descrizione delle precedenti tre rivoluzioni industriali che hanno prodotto, col tempo, quella ricchezza e benessere di cui oggi noi tutti (prevalentemente occidentali) godiamo. Più in dettaglio viene proposto un parallelo tra la prima rivoluzione e quella attuale che avrebbero in comune la concentrazione di potere in mano di pochi lasciando la gran massa fuori dal godimento delle ricchezze.

La prima lettura diversa che voglio proporre riguarda il tema dell'imprenditorialità intesa come capacità di creare "nuovi mondi" a partire dalle tecnologie esistenti.

martedì 15 novembre 2016

Rapporto Cerved PMI 2016: uno sguardo sugli effetti (dimenticando le cause)

di 
Luciano Martinoli


E' stato presentato il rapporto sullo stato delle PMI. Appaiono segnali di miglioramento, ma quali sono le loro cause? Lo si può capire dai risultati prescindendo dai comportamenti che li hanno generati (e che se non modificati li rigenereranno) ?

Anche quest'anno Cerved ha presentato, per il terzo anno consecutivo, il suo rapporto sullo stato delle PMI italiane con un approfondimento, questa volta, sugli agenti dell'innovazione: le start-up e le PMI innovative.
Le analisi effettuate grazie all'accesso dell'immenso patrimonio dati di cui dispone l'azienda, in questo caso i bilanci di più di 130.000 PMI, se da un lato offrono strumenti di lettura interessanti, dall'altro sono minati da una "vista" radicata sui luoghi comuni di gestione d'impresa e avulsa da considerazioni strategiche.
Qualche esempio a tal proposito.

domenica 13 novembre 2016

Debiti e Capitale sono la stessa cosa

di
Francesco Zanotti

Risultati immagini per debito e capitale

Ma ci rendiamo conto che non c’è differenza tra debiti e capitale? Nè operativa né etica. Forse è il caso di cambiare prospettiva.

E’ meglio il debito o il capitale?
Cominciamo da Modigliani-Miller. Brevemente questi due economisti hanno dimostrato che, sotto alcune condizioni (ma che sono quelle che valgono per gran parte dell’economia) il valore di una impresa è indipendente dalla fonte dei suoi finanziamenti: capitale o debito.
Ma non basta. La cosa fondamentale è che anche il capitale è un debito: verso gli azionisti.
Ma poi una impresa può guadagnare (per usare una espressione del linguaggio comune) e così ripagare i debiti. Certo, ma lo fa a spese di qualche altra impresa che perde.
Cambiamo prospettiva. L’economia cresce solo grazie alla immissione di nuove risorse di scambio, nuovo denaro. Tocca alle banche centrali fornire questo denaro. E non è necessario passare dalla infrastruttura banca, nè da qualunque altra infrastruttura di intermediazione "intelligente". E' necesario che le risorse fluiscano dalle banche cebtrali direttamente a cittadini e imprese. … Quando cominceremo a creare moneta per investire?


giovedì 10 novembre 2016

Ma le aziende come fanno i soldi ?

di
Luciano Martinoli
luciano.martinoli@gmail.com l.martinoli@cse-crescendo.com



Nelle descrizioni e nei resoconti ufficiali aziendali (bilanci, business plan, ecc.) si da per scontato che sia chiara la modalità con la quale l'azienda fa "i soldi" (ricavi, profitti, cassa). Da più parti invece aumenta la difficoltà nel comprendere il legame tra i risultati economici e il modo in cui vengono prodotti.

Un recente articolo del Wall Street Journal riporta e commenta alcuni risultati del rapporto annuale sui bilanci delle principali aziende inglesi redatto dal Financial Reporting Council , organismo indipendente britannico che si occupa di regolamentazione del reporting e della governance. Uno dei principali rilievi è la carenza di "chiari legami tra i business model e come vengono realizzati i ricavi", un'affermazione sorprendente considerando che dovrebbe essere un tema di base facilmente affrontabile. Un direttore del FRC motiva queste richieste in quanto "gli investitori ci hanno detto che vogliono la comparabilità quando leggono i conti delle aziende" (figuriamoci la loro disperazione nella lettura dei piani industriali!), sfatando così un altro luogo comune riguardo le competenze di "settore" degli investitori che molti di stessi (ma anche le banche nostrane) ritengono essere sufficienti a tale scopo.

A conferma della generalità del problema, emerso anche oltreoceano, lo stesso Wall Street Journal, in un altro articolo, riporta lo sconcerto di vari analisti che, durante le conferenze sulle trimestrali di alcune corporate, denunciano la difficoltà di comprendere (trying to understand) i business delle aziende (con conseguente crollo delle corrispondenti azioni).

Tali episodi denunciano una grave ignoranza carenza da parte delle aziende. Ignoranza, nel senso letterale di ignorare, che esiste una disciplina, la "Strategia d'Impresa", che si occupa anche della precisa descrizione del business, fondamentale per qualsiasi altro ragionamento sui risultati passati e, a maggior ragione, sulla loro evoluzione futura. Carenza in quanto non si preoccupano di ricercare i più recenti sviluppi di queste descrizioni che possano risolvere questi problemi; ma anche da parte di chi dovrebbe offrire, i consulenti, soluzioni per risolverli. Nel frattempo in Italia si dibatte su sempre più sofisticati strumenti e analisi di bilancio che, dimenticando di chiarire il legame con il modo in cui vengono prodotti (il problema di FRC riportato all'inizio), si risolvono in un ragionare su numeri che hanno pochi o nebulosi legami con la realtà. Oppure si cerca di dare una risposta utilizzando strumentazione banale e semplicistica, ad esempio il Business Canvas, totalmente inadeguata allo scopo (e se lo dice un ente inglese che si occupa solo di questo, volete che non conosca lo stato dell'arte sul tema, deve essere proprio vero).
A cosa serve allora questa vista "monoculare" sui numeri? Quale contributo può dare alla comprensione dello stato attuale e, sopratutto futuro, delle aziende?
Dunque vi è un urgente bisogno di ritorno ai "fondamentali" (la Definizione del Business), che per troppo tempo sono stati dati per scontati ma che oggi, alla luce della sempre più crescente complessità del business, necessitano invece di una descrizione più formale, precisa e approfondita.
Il nostro avanzato modello del Business Plan è la più innovativa, finora, proposta in questo ambito.  

sabato 5 novembre 2016

Chi ha bisogno del CEO?

di
Luciano Martinoli


Un caso di nuova governance da un'azienda svizzera: niente Ceo e tutti i primi livelli che riportano direttamente al board.

Il Wall Street Journal del 4 novembre riporta la notizia di un inconsueto riassetto organizzativo di un'azienda svizzera del settore lusso. Congedato l'amministratore delegato, il proprietario ha deciso di non sostituirlo e di far riportare tutti i primi livelli al consiglio di amministrazione. E' una mossa che certamente comporterà una reazione più veloce al business. L'esistenza di un "grande capo" infatti corre il rischio di essere un collo di bottiglia del processo decisionale e "un unico individuo non può essere ritenuto responsabile per ogni cosa" ha affermato saggiamente il signor Rupert che fondò l'azienda più di venti anni fa. 
Vi è anche un altro aspetto positivo di questa tipologia di assetto: la responsabilizzazione del board che non solo ha la possibilità di rendersi conto di prima mano dell'andamento del business, ma è chiamato anche ad agire in presa diretta.
Interessante inoltre il ruolo che Rupert si è ritagliato: "air-traffic controller of egos", una dimensione importante e critica nell'ambiente conflittuale degli executive.

L'azienda si sta avviando verso quelle forme organizzative senza capi che alcuni già stanno sperimentando? Non è dato saperlo ma un altro aspetto interessante è emerso: il mercato, l'azienda è quotata, pare abbia apprezzato la mossa. Una dimostrazione che se c'è coraggio e intelligenza nella gestione dell'azienda, la finanza apprezza e segue, laddove c'è incertezza impone le sue regole che si rivelano una utile scusa per capi azienda pavidi e privi di idee.

mercoledì 2 novembre 2016

Macroeconomia revisited 1a puntata

di
Francesco Zanotti

Risultati immagini per Macroeconomia

La macroeconomia ha bisogno di una profonda riscrittura … Proviamoci cercando di ricavare qualche nuova idea sul governo dell’economia

La macroeconomia è sostanzialmente una teoria dell’equilibrio tra domanda ed offerta che, però, considera la produzione il driver fondamentale della domanda. Nel senso che è l’aumento della produzione a generare un aumento della domanda.
La crisi che stiamo vivendo ha messo in dubbio questa teoria perché si è verificato un calo della domanda che precede (non è generato) dal calo della produzione.
Tanto è vero che, come riporta Ricardo Franco Levi sul Corriere del 2 novembre 2016, Janet Ellen alla sessantesima conferenza annuale della Federal Reserve Bank of Boston si chiede come sia possibile che un persistente calo della domanda possa causare un danno permanente all’offerta. Le sembra incredibile.
Costretta dai fatti ad accettare che quanto si pensava impossibile sta accadendo, si chiede, allora, se sarà vero che, spingendo con forza sulla domanda, si potrà davvero accrescere la capacità produttiva, stimolare investimenti e nascita di nuove imprese, aumentare l’occupazione.
Ma sembra che nessuno sappia rispondere, tanto che l’Autore dell’articolo sostiene che ci vorrebbe un nuovo genio alla Keynes per capirci qualcosa.

A me sembra, però, che non servano geni. Basta guardare un po’ più nel profondo. Mi sembra che l’attuale disagio della macroeconomia possa trovare una facile soluzione abbandonando la teoria dell’equilibrio
La crisi attuale è una crisi da perdita di senso. Più prosaicamente, essa è dovuta alla noia: i prodotti offerti dalle imprese interessano sempre meno. Aumentare la capacità produttiva e la produttività del lavoro non aumenta la domanda, ma accelera la virulenza della competizione di prezzo che deprima la capacità di generare cassa delle imprese. Ad aumentare la domanda non basta neanche aumentare la liquidità disponibile. Finisce nella finanza e non nell’economia.
Due corollari a questa visione.
Il primo è che è il dato più importante per capire se aumenta o diminuisce la capacità di generare valore di una impresa è la sua capacità di generare cassa, non il fatturato. Ora, la capacità di generare cassa inizia a deprimersi molto prima che inizi a calare il fatturato. Se oggi sta calando la capacità di generare fatturato questo significa che la capacità di generare cassa è iniziata molto prima. E il fatto che non ce ne siamo accorti ha generato il fenomeno degli NPL.
Il secondo è che il PIL può essere sottoposto ad una critica più profonda di quelle, pure sensate, vnano per la maggiore. Un aumento del PIL può essere compatibile con una perdita della capacità di generare casa delle imprese. Ed è anche compatibile con una perdita di reddività delle imprese. Detto diversamente, ad aumentare il PIL possono contribuire con lo stesso ruolo sia imprese che assorbono cassa, sia imprese in perdita. Il PIL non vede né gli utili né la cassa.  
Tornando al “teorema” principale, per aumentare la domanda è necessario innovare radicalmente l’offerta. Superare il problema della noia. Immaginare prodotti che abbiano lo stesso significato esistenziale che avevano la lavatrice o il frigorifero prima, ai tempi del nostro miracolo economico.
La chiave per riuscirci è avviare una nuova stagione di progettualità imprenditoriale che costruendo oggetti, imprese e infrastrutture radicalmente nuove, genera una nuova domanda alta, forte e sana.

La liquidità potrà così essere indirizzata a finanziare i nuovi progetti imprenditoriali.